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SENTENZA N. 77  ANNO 2018

REPUBBLICA ITALIANA. IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
-omissis-
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma, del codice di procedura civile, come
modificato dall’art. 13 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132 (Misure urgenti di
degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile),
convertito, con modificazioni, nella legge 10 novembre 2014, n. 162, promossi dal Tribunale ordinario di
Torino in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 30 gennaio 2016 e dal Tribunale ordinario di
Reggio Emilia in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 28 febbraio 2017, iscritte rispettivamente
al n. 132 del registro ordinanze 2016 e al n. 86 del registro ordinanze 2017 e pubblicate nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell’anno 2016 e n. 25, prima serie speciale, dell’anno
2017.
Visti gli atti di costituzione di Antonio Benedetto, della REAR società cooperativa a rl, di Elvira
Rasulova, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e della Confederazione
generale italiana del lavoro (CGIL);
udito nella udienza pubblica del 7 marzo 2018 il Giudice relatore Giovanni Amoroso;
uditi gli avvocati Alberto Piccinini e Amos Andreoni per Elvira Rasulova, Vincenzo Martino e Amos
Andreoni per Antonio Benedetto, Giorgio Frus per la REAR società cooperativa a rl e l’avvocato dello Stato
Vincenzo Rago per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.- Il Tribunale ordinario di Torino ed il Tribunale ordinario di Reggio Emilia, entrambi in funzione di
giudice del lavoro, con le ordinanze rispettivamente del 30 gennaio 2016 e del 28 febbraio 2017, iscritte al n.

132 del 2016 e al n. 86 del 2017 del registro ordinanze, hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 92, secondo comma, del codice di procedura civile, nel testo modificato dall’art. 13, comma 1, del
decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132 (Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la
definizione dell’arretrato in materia di processo civile), convertito, con modificazioni, nella legge 10
novembre 2014, n. 162; disposizione questa che prevede che il giudice, se vi è soccombenza reciproca
ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto a
questioni dirimenti, può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero.
Le ordinanze fanno riferimento a plurimi parametri in parte coincidenti. Il Tribunale ordinario di Torino
richiama gli artt. 3, primo comma, 24, primo comma, e 111, primo comma, della Costituzione; il Tribunale
ordinario di Reggio Emilia deduce gli artt. 3, primo e secondo comma, 24, 25, primo comma, 102, 104 e 111
Cost., nonché gli artt. 21 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata
a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, e gli artt. 6, 13 e 14 della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a
Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, questi ultimi come
parametri interposti per il tramite dell’art. 1 17, primo comma, Cost.
Entrambi i giudici rimettenti incentrano i dubbi di legittimità costituzionale della disposizione censurata
sulla mancata previsione, in caso di soccombenza totale, del potere del giudice di compensare le spese di lite
tra le parti anche in casi ulteriori rispetto a quelli ivi previsti. Il solo Tribunale di Reggio Emilia deduce
altresì la mancata considerazione del lavoratore ricorrente come parte “debole” del rapporto controverso al
fine della regolamentazione delle spese processuali.
2.- In particolare, il Tribunale ordinario di Torino è investito del ricorso proposto da un socio lavoratore di
una società cooperativa, con mansioni di addetto al controllo ingressi e alla viabilità, avente ad oggetto, in
via principale, la domanda di ricalcolo retributivo in base ad un contratto collettivo diverso da quello
applicato dalla datrice di lavoro, con conseguente richiesta di condanna della società resistente al pagamento
delle relative differenze retributive; in via subordinata, il ricorso ha ad oggetto la domanda di condanna della
società resistente al pagamento delle integrazioni contrattuali delle indennità legali di infortunio e malattia
computate con riferimento al contratto collettivo applicato dalla società.
A fondamento della domanda il socio lavoratore ricorrente ha dedotto che la società aveva fatto
applicazione di un contratto collettivo sottoscritto da organizzazioni datoriali e sindacali non
sufficientemente rappresentative ed ha quindi chiesto l’applicazione, ai fini della verifica della congruità
retributiva, di altro diverso contratto collettivo, già utilizzato in vertenze similari.
La società si è costituita ed ha chiesto il rigetto delle domande indicando, sempre ai fini del giudizio di
congruità della retribuzione, quale termine di raffronto, un contratto collettivo ulteriormente diverso da
quello invocato dal ricorrente. Quanto alla domanda subordinata, la resistente ha osservato che l’esclusione
dell’integrazione contrattuale delle indennità legali di malattia e di infortunio aveva fatto seguito ad una
delibera assembleare del 20 giugno 2011, approvata per garantire la sopravvivenza della società messa in
stato di crisi, in conformità all’art. 6, comma 1, lettere d) ed e), della legge 3 aprile 2001, n. 142 (Revisione
della legislazione in materia cooperativistica, con particolare riferimento alla posizione del socio lavoratore).
Ciò premesso, il rimettente, dopo aver disposto consulenza contabile, ha rigettato entrambe le domande
con sentenza qualificata “non definitiva” e, con separata ordinanza, ha disposto la prosecuzione del giudizio
per la definizione del regolamento delle spese di lite; all’esito di discussione orale ha sollevato, d’ufficio,
questione di legittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., nel testo novellato
dall’art. 13, comma 1, del citato d.l. n. 132 del 2014, quale convertito in legge.

Ad avviso del rimettente si configurerebbe la violazione dell’art. 3, primo comma, Cost., sotto il profilo
del principio di ragionevolezza, in quanto sussisterebbe una sproporzione tra il fine perseguito - quello di
«disincentivare l’abuso del processo» - e lo strumento normativo utilizzato, consistito nella «limitazione
estrema ed oltre ogni misura delle ipotesi di compensazione» delle spese di lite. Mentre il testo, come
modificato dalla legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la
competitività nonché in materia di processo civile), era già «del tutto sufficiente a scongiurare eventuali
abusi, da parte del giudice, nell’uso dello strumento della compensazione contenendo essa già una
regolamentazione del tutto rigorosa ed appropriata».
Il medesimo parametro sarebbe poi violato – secondo il giudice rimettente - sotto il profilo del principio di
eguaglianza, avuto riguardo alle situazioni contemplate dalla norma raffrontate, quali tertia comparationis,
con quelle escluse, di pari gravità ed eccezionalità, individuate dalla giurisprudenza di legittimità.
Il tribunale rimettente deduce altresì la violazione dell’art. 24, primo comma, Cost., in quanto la riduzione
delle ipotesi di compensazione soltanto a due (oltre a quella tradizionale della soccombenza reciproca)
«tende […] a scoraggiare in modo indebito l’esercizio dei diritti in sede giudiziaria, divenendo così uno
strumento deflattivo (e punitivo) incongruo» nelle ipotesi in cui la condotta della parte, poi risultata
soccombente, non integra casi di abuso del processo, ma sia improntata a correttezza, prudenza e buona fede.
Parimenti sarebbe violato l’art. 111, primo comma, Cost., sotto il profilo del principio del giusto processo,
in quanto la disposizione censurata, consentendo la compensazione nei soli casi indicati, «limita il potere -
dovere del giudice di rendere giustizia, anche in ordine al regolamento delle spese di lite, in modo
appropriato al caso concreto».
3.- Nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale promosso dal Tribunale ordinario di Torino si
sono costituite le parti del giudizio a quo, che hanno depositato memorie.
Il lavoratore socio ha aderito alle censure mosse dall’ordinanza di rimessione, ribadendo ciò con
successiva memoria e concludendo per la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 92, secondo
comma, cod. proc. civ.
La società resistente ha rilevato in via preliminare che la regolamentazione delle spese di lite non è
suscettibile di autonomo distinto giudizio, richiamando a tal proposito l’ordinanza n. 314 del 2008 di questa
Corte. Nel merito sottolinea come la disposizione censurata non costituisca uno «strumento punitivo
incongruo», essendo ragionevole porre, di regola, i costi del processo a carico di colui che lo ha attivato con
esito negativo, e limitare la possibile compensazione delle spese di lite ad ipotesi tassativamente previste,
stante il carattere eccezionale delle medesime.
È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale
dello Stato, concludendo per l’inammissibilità o l’infondatezza della sollevata questione di legittimità
costituzionale. In particolare la difesa dell’interveniente afferma la ragionevolezza della individuazione da
parte del legislatore, nell’esercizio dell’ampia discrezionalità di cui egli gode in materia processuale, di
ipotesi specifiche e tassative che giustifichino la compensazione delle spese di lite. Si tratterebbe di una
scelta che non entra in collisione con i parametri costituzionali che il giudice rimettente assume essere violati
e che integrerebbe il giusto mezzo per conseguire la finalità deflativa al fine di «disincentivare» l’abuso del
processo.
È intervenuta ad adiuvandum la Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL), concludendo per
l’ammissibilità dell’intervento e, nel merito, per la dichiarazione di illegittimità costituzionale della censurata
disposizione.

4.- Il Tribunale ordinario di Reggio Emilia è investito di una controversia avente ad oggetto
l’impugnazione del licenziamento, azionata mediante ricorso proposto ai sensi dell’art.1, commi 48 e
seguenti, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una
prospettiva di crescita). Si tratta di una lavoratrice che ha impugnato il licenziamento intimatole in data 30
novembre 2015 dalla Italservizi srl (poi Agriservice MO srl in liquidazione) con decorrenza dal 31 dicembre
2015.
In particolare la lavoratrice ha agito nei confronti di numerosi convenuti (Burani Interfood spa, Servizi
Commerciali Integrati srl, Agriservice MO srl e Burani Stefano Luigi personalmente ed in proprio),
affermando l’esistenza «di un unico centro di imputazione giuridica o gruppo d’imprese e la contemporanea
utilizzazione della prestazione lavorativa da parte di tutti i convenuti», sicché l’intervenuto licenziamento era
da porre nel nulla nei confronti di ognuno dei soggetti chiamati in causa.
Si è costituita, tra le altre parti, la Burani Interfood spa, che ha eccepito, in via preliminare,
l’inammissibilità del ricorso essendo intervenuta il 25 gennaio 2016 la revoca del licenziamento da parte
della Agriservice MO srl (successivamente in liquidazione).
All’esito della prima fase del procedimento (a cognizione sommaria) il rimettente ha pronunciato
un’ordinanza di inammissibilità del ricorso per carenza di interesse ad agire della ricorrente per mancanza
del licenziamento e, in merito alle spese di lite, ha condannato la lavoratrice al rimborso di quelle sostenute
dalla attuale (almeno formalmente) datrice di lavoro Agriservice MO srl in liquidazione, mentre le ha
compensate con riferimento alle altre parti convenute.
Nei confronti del capo dell’ordinanza relativo alla liquidazione delle spese della fase sommaria, la sola
Burani Interfood spa ha proposto opposizione per la mancanza dei presupposti richiesti a tal fine dall’art. 92,
secondo comma, cod. proc. civ. e per l’assenza di motivazione in merito alla disposta compensazione per le
altre parti, censurando infine la disparità di trattamento rispetto alla Agriservice MO srl.
Nel giudizio di opposizione si è costituita la lavoratrice per contestare in fatto e in diritto l’opposizione e
ha sollevato eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ.,
evidenziando come un’interpretazione rigida di tale disposizione determinerebbe un’illegittima riduzione
della discrezionalità del giudice nella valutazione degli elementi idonei a giustificare la compensazione delle
spese di lite.
Anche il Tribunale ordinario di Reggio Emilia chiede alla Corte di dichiarare l’illegittimità costituzionale
dell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., nel testo modificato dall’art. 13, comma 1, del d.l. n. 132 del
2014, convertito, con modificazioni, nella legge n. 162 del 2014, nella parte in cui - nelle cause di lavoro o di
previdenza, nelle quali l’attore in primo grado è quasi sempre il lavoratore – non prevede il potere del
giudice di valutare «i gravi ed eccezionali motivi» per compensare le spese di lite.
Ad avviso del rimettente si configurerebbe la violazione degli artt. 3, primo e secondo comma, 24 e 111
Cost., in quanto la disposizione censurata «priva irragionevolmente il Giudice della essenziale funzione di
giustizia, ovvero quella di adeguare la pronunzia alle peculiarità del modello processuale ed alle condizioni
personali e circostanze concrete del caso di specie»; dà luogo alla manifesta violazione del principio di
uguaglianza sostanziale «che esigerebbe un trattamento differenziato, ma di vantaggio, per il soggetto più
debole e costretto ad agire giudizialmente» per vedere accertata l’illegittimità del provvedimento datoriale,
trattandosi, di regola, di «controversie a “controprova”»; «esercita di fatto una gravissima limitazione del
diritto all’effettività dell’accesso alla giustizia in danno del lavoratore», già gravato dagli oneri economici,
non detraibili, del pagamento del contributo unificato, dell’anticipazione delle spese legali e dell’IVA; limita
il diritto all’effettività dell’accesso alla giustizia «in termini di pesante “deterrenza” in modo

proporzionalmente (e vieppiù irragionevolmente) maggiore per quanto minore sia la capacità economica del
lavoratore»; colpisce, irragionevolmente, anche la parte incolpevole che non ha «abusato» del processo o che
non ha invocato diritti, «che a priori, sapeva essere inesistenti».
Inoltre, sempre ad avviso del rimettente, sarebbero violati gli artt. 25, primo comma, 102 e 104 Cost., in
quanto l’intervenuto d.l. n. 132 del 2014 costituirebbe un’ingerenza del potere legislativo su quello
giudiziario comprimendo oltremodo la discrezionalità del giudice.
Il tribunale rimettente deduce poi la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 47
CDFUE che esige l’effettività del diritto d’azione e di accesso alla giustizia e l’equità del processo,
«quest’ultima irragionevolmente lesa da una sanzione che colpisce una parte che non ha “responsabilità”
processuale (nelle cause “a controprova”)»; nonché in relazione agli artt. 6 e 13 CEDU, in rapporto al
«diritto all’equo processo» ed al diritto ad un «ricorso effettivo», in quanto la modifica dell’art. 92, secondo
comma, cod. proc. civ. in chiave specificamente deflativa, rappresenta un mezzo sproporzionato rispetto allo
scopo perseguito.
Altresì sarebbero violati gli artt. 14 CEDU e 21 CDFUE, in relazione al principio di non discriminazione,
derivante dal divieto per il giudice di tener conto della condizione personale del lavoratore, «così
pregiudicandone il diritto di azione proprio in ragione della limitata capacità economica, anche a prescindere
da ragioni di “colpevolezza processuale”».
Il rimettente poi osserva che nel processo del lavoro sono frequenti le controversie cosiddette “a
controprova”, nel senso che il lavoratore deve introdurle non disponendo di tutti i dati che incidono sulla
legittimità, o meno, del provvedimento datoriale che egli ha già subito e di cui chiede al giudice il controllo
di legittimità, da operare appunto all’esito dell’assolvimento della prova da parte del datore di lavoro
convenuto in giudizio.
Con specifico riferimento alle controversie di lavoro, il rimettente deduce inoltre che il lavoratore, per
introdurre la causa in primo grado, deve, di regola, sostenere l’onere del contributo unificato, l’anticipazione
delle spese legali e spesso di quelle per conteggi, oltre all’IVA sulla prestazione dei professionisti; e tutti
questi oneri, come pure quello eventuale delle spese di soccombenza, non sono detraibili. Al contrario, il
datore, di regola, potrà recuperare l’IVA sulle prestazioni del difensore e detrarrà dal reddito la relativa
parcella, come le spese di eventuale soccombenza.
In riferimento al principio di non discriminazione sancito nella CEDU, il rimettente osserva come la
discriminazione vietata dall’art. 14 della Convenzione consista nel trattare in modo differente, salvo una
giustificazione obiettiva e ragionevole, le persone che si trovano in situazioni simili o analoghe e che una
distinzione è discriminatoria se non persegua uno scopo legittimo o se non sussiste un rapporto di
ragionevole proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo che si è prefissata.
Quanto alla rilevanza della sollevata questione di legittimità costituzionale, il giudice a quo pone in rilievo
che la lavoratrice, originaria ricorrente nel procedimento per l’impugnazione del licenziamento, è convenuta
in opposizione, dalla società cui non è stato ritenuto riconducibile il licenziamento, per essere condannata
alla rifusione delle spese processuali sia della prima fase (sommaria), sia di quella attuale di opposizione; il
rimettente afferma che la vicenda riveste una peculiarità oggettiva tale da rendere difficile una ricostruzione
in fatto degli avvenimenti, per i numerosi passaggi subiti dal lavoratore da una società all’altra nonché per la
necessità di procedere alla ricostruzione delle trasformazioni e cessioni societarie avvenute, in forza delle
quali le plurime aziende coinvolte, tra loro collegate di fatto o in diritto, hanno cambiato nome, assetto e
composizione societaria, ceduto rami d’azienda ed effettuato altre intricate modifiche interne.

5.- Nel giudizio incidentale si è costituita la lavoratrice, depositando anche memoria, ed ha concluso per la
fondatezza della questione.
È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale
dello Stato, concludendo per l’inammissibilità o l’infondatezza della sollevata questione di legittimità
costituzionale. La difesa dell’interveniente svolge sostanzialmente le medesime argomentazioni già
prospettate nell’altro giudizio incidentale, deducendo, in particolare, che nell’ambito di controversie in
materia di lavoro, dove una delle parti in causa potrebbe risultare economicamente svantaggiata rispetto
all’altra, l’indicazione tassativa delle ipotesi in cui è possibile procedere alla compensazione delle spese di
lite non determina un effetto preclusivo del ricorso alla tutela giurisdizionale.
Considerato in diritto
1.– Con ordinanza del 30 gennaio 2016, iscritta al n. 132 del registro ordinanze 2016, il Tribunale
ordinario di Torino, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma,
24, primo comma, e 111, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art.
92, secondo comma, del codice di procedura civile, nel testo modificato dall’art. 13, comma 1, del decreto-
legge 12 settembre 2014, n. 132 (Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la
definizione dell’arretrato in materia di processo civile), convertito, con modificazioni, nella legge 10
novembre 2014, n. 162, nella parte in cui non consente, in caso di soccombenza totale, la compensazione
delle spese di lite anche in altre ipotesi di gravi ed eccezionali ragioni, analoghe a quelle indicate in modo
tassativo dalla disposizione stessa, ossia l’«assoluta novità della questione trattata» e il «mutamento della
giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti».
La questione è stata sollevata nel corso di un giudizio civile promosso da un socio lavoratore di una
società cooperativa, per ottenere la condanna di quest’ultima al pagamento di differenze di compenso per
l’attività svolta calcolate sulla base delle tariffe del contratto collettivo ritenute applicabili ai sensi dell’art. 3,
comma 1, della legge 3 aprile 2001, n. 142 (Revisione della legislazione in materia cooperativistica, con
particolare riferimento alla posizione del socio lavoratore), e dell’art. 7, comma 4, del decreto-legge 31
dicembre 2007, n. 248 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni urgenti in
materia finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 28 febbraio 2008, n. 31. In via subordinata lo
stesso ricorrente aveva chiesto il riconoscimento di un’integrazione contrattuale delle indennità previste in
caso di infortunio e di malattia.
Il tribunale, pronunciandosi nell’instaurato contraddittorio delle parti, ha rigettato, con sentenza
qualificata “non definitiva”, sia la domanda principale che quella subordinata, ed ha disposto la prosecuzione
del giudizio per la definizione della questione residua, concernente il regolamento delle spese di lite. In tale
sede, ha sollevato d’ufficio la questione di legittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma, cod. proc.
civ., con riferimento ai parametri suddetti ritenendo che la limitazione a due sole ipotesi tassative della
possibilità per il giudice di compensare le spese di lite in caso di soccombenza totale sia contraria al
principio di ragionevolezza e di eguaglianza, nonché a quello del giusto processo e comporti un’eccessiva
remora a far valere i propri diritti in giudizio.
Secondo il tribunale rimettente, nella specie, l’esito della lite, sfavorevole al lavoratore, è dipeso da
elementi di fatto nuovi, non previsti né prevedibili: da una parte una contrattazione collettiva utilizzata
parametricamente dal consulente tecnico d’ufficio per calcolare le rivendicate differenze retributive, la quale
era diversa sia da quella applicata dalla società, sia da quella allegata dal lavoratore a sostegno della sua
pretesa; d’altra parte una non conosciuta delibera della società che aveva (legittimamente) sospeso
l’erogazione del trattamento integrativo di malattia e di infortunio, parimenti rivendicato dal lavoratore.

2.- Con ordinanza del 28 febbraio 2017, iscritta al n. 86 del registro ordinanze 2017, il Tribunale ordinario
di Reggio Emilia, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato analoghe questioni di legittimità
costituzionale della medesima disposizione, per contrasto con gli artt. 3, primo e secondo comma; 24; 25,
primo comma; 102; 104 e 111 Cost.; nonché degli artt. 21 e 47 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre
2007, e degli artt. 6, 13 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4
agosto 1955, n. 848, questi ultimi come parametri interposti per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost.
La questione è stata sollevata nel corso di una controversia di lavoro avente ad oggetto l’impugnativa di
un licenziamento, promossa con il rito di cui all’art. 1, comma 48, della legge 28 giugno 2012, n. 92
(Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), da una lavoratrice
nei confronti non solo della società che aveva intimato il licenziamento, ma anche di altre società,
sull’asserito presupposto di un unico centro di imputazione giuridica del rapporto di lavoro, stante la
contemporanea utilizzazione della prestazione lavorativa da parte di tutte le società convenute. La fase
sommaria si concludeva con un’ordinanza di inammissibilità del ricorso per essere stato il licenziamento
revocato. Quanto alle spese di lite il tribunale condannava la lavoratrice al pagamento delle spese nei
confronti della società che aveva formalmente intimato – e poi revocato – il licenziamento; invece le
compensava tra la lavoratrice e le altre società convenute in giudizio. Avverso questa ordinanza proponeva
opposizione una sola di queste ultime società, dolendosi della compensazione delle spese di lite e chiedendo
la condanna della lavoratrice, originaria ricorrente, al pagamento delle stesse. Quest’ultima ha resistito
all’opposizione eccependo, tra l’altro, l’illegittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma, cod. proc.
civ.; eccezione che il giudice dell’opposizione ha accolto promuovendo l’incidente di legittimità
costituzionale con riferimento ai parametri sopra indicati e muovendo censure analoghe a quelle del
Tribunale di Torino, nonché lamentando che non venga in rilievo la posizione del lavoratore quale parte
“debole” del rapporto controverso.
Secondo il tribunale rimettente l’utilizzazione delle prestazioni lavorative da parte non solo della società
datrice di lavoro, ma anche di altre società, aveva creato l’apparenza di un unico centro di imputazione del
rapporto di lavoro con conseguente grave incertezza in ordine a chi fosse il reale datore; sicché non
ingiustificata appariva l’evocazione in giudizio delle varie società interessate.
3.– Le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dal Tribunale ordinario di Torino e dal Tribunale
ordinario di Reggio Emilia, sono in larga parte sovrapponibili e quindi si rende opportuna la loro trattazione
congiunta mediante riunione dei giudizi.
4.– Va preliminarmente considerato che nel giudizio di legittimità costituzionale originato dall’ordinanza
di rimessione del giudice del lavoro di Torino è intervenuta ad adiuvandum la Confederazione generale
italiana del lavoro (CGIL), aderendo alle argomentazioni contenute nell’ordinanza di rimessione e chiedendo
l’accoglimento della prospettata questione di legittimità costituzionale.
L’Avvocatura generale dello Stato e la difesa della società costituita hanno eccepito l’inammissibilità di
tale intervento.
L’intervento è inammissibile.
La costante giurisprudenza di questa Corte (tra le tante, le ordinanze allegate alle sentenze n. 16 del 2017,
n. 237 e n. 82 del 20 13, n. 272 del 2012, n. 349 del 2007, n. 279 del 2006 e n. 291 del 2001) è nel senso che
la partecipazione al giudizio incidentale di legittimità costituzionale è circoscritta, di norma, alle parti del

giudizio a quo, oltre che al Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente
della Giunta regionale (artt. 3 e 4 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale).
A tale disciplina è possibile derogare - senza venire in contrasto con il carattere incidentale del giudizio di
costituzionalità - soltanto a favore di soggetti terzi che siano titolari di un interesse qualificato,
immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di
ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura. Pertanto, l’incidenza sulla posizione soggettiva
dell’interveniente deve derivare non già, come per tutte le altre situazioni sostanziali disciplinate dalla
disposizione denunciata, dalla pronuncia della Corte sulla legittimità costituzionale della legge stessa, ma
dall’immediato effetto che la pronuncia della Corte produce sul rapporto sostanziale oggetto del giudizio a
quo.
Nella specie – essendo la CGIL titolare non di un interesse direttamente riconducibile all’oggetto del
giudizio principale, bensì di un mero indiretto, e più generale, interesse connesso agli scopi statutari della
tutela degli interessi economici e professionali degli iscritti – il suo intervento in questo giudizio deve essere
dichiarato inammissibile.
5.– Ancora in via preliminare l’Avvocatura generale dello Stato ha sollevato eccezione di inammissibilità
delle questioni di legittimità costituzionale per mancata interpretazione adeguatrice della disposizione
censurata.
L’eccezione non è fondata.
Entrambi i giudici rimettenti hanno, con motivazione plausibile, escluso la possibilità di interpretazione
adeguatrice della disposizione censurata osservando che il recente ripetuto intervento del legislatore sulla
disposizione censurata, di cui si dirà oltre, mostra chiaramente che si è inteso restringere sempre più la
discrezionalità del giudice della controversia fino a definire le sole ipotesi che facoltizzano il giudice, in caso
di soccombenza totale, a compensare, in tutto o in parte, le spese di lite; ipotesi che quindi sono tassative: la
soccombenza reciproca ovvero l’assoluta novità della questione trattata o il mutamento della giurisprudenza
rispetto alle questioni dirimenti. Non è possibile pertanto estendere in via interpretativa tale facoltà del
giudice ad altre ipotesi che parimenti consentano la compensazione delle spese di lite.
Tanto è sufficiente per ritenere l’ammissibilità della questione, anche in ragione della più recente
giurisprudenza di questa Corte che ha affermato che, se è vero che le leggi non si dichiarano
costituzionalmente illegittime «perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice
ritenga di darne)», ciò però non significa che «ove sia improbabile o difficile prospettarne un’interpretazione
costituzionalmente orientata, la questione non debba essere scrutinata nel merito» (sentenza n. 42 del 2017;
nello stesso senso, sentenza n. 83 del 2017).
6.- L’Avvocatura generale dello Stato ha inoltre eccepito l’inammissibilità delle questioni di legittimità
costituzionale per insufficiente descrizione della fattispecie.
L’eccezione non è fondata.
Entrambi i giudici rimettenti hanno descritto in dettaglio la fattispecie al loro esame nei termini sopra
riportati ed hanno chiaramente evidenziato la necessità di applicare nei giudizi a quibus la disposizione
censurata in ordine alla quale hanno motivatamente argomentato i loro dubbi di legittimità costituzionale.
Le sollevate questioni di legittimità costituzionale sono quindi ammissibili, sotto l’indicato profilo, e
sussiste altresì la loro rilevanza.
7.- C’è poi un ulteriore, più delicato, profilo di ammissibilità concernente le questioni oggetto
dell’ordinanza di rimessione del Tribunale ordinario di Torino, che – come già rilevato - ha deciso con
sentenza, qualificata “non definitiva”, tutto il merito della causa ed ha riservato solo la decisione sulle spese

di lite, in riferimento alla quale, con distinta ordinanza, ha posto la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ.
Deve rilevarsi al riguardo che questa Corte nell’ordinanza n. 395 del 2004 ha affermato che la
regolamentazione delle spese, in quanto accessoria alla decisione di merito, non è suscettibile di un
autonomo giudizio.
La citata ordinanza ha riguardato una situazione analoga: quella di un giudice rimettente (di primo grado)
che, nel censurare il medesimo art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., aveva parimenti deciso, con
sentenza, il merito della causa disponendo con ordinanza la sospensione del processo limitatamente alla
pronuncia accessoria sulle spese legali, perché, ritenendo di dover fare uso della facoltà di compensarle, ai
sensi della citata disposizione nel testo originario, dubitava della legittimità costituzionale di tale norma,
«così come interpretata dalla giurisprudenza pressoché univoca e costante della Suprema Corte», secondo cui
non vi era alcun obbligo di motivare il capo della sentenza col quale fosse disposta la compensazione delle
spese «per giusti motivi», trattandosi di statuizione discrezionale, assistita da una presunzione di conformità
a diritto.
Questa Corte ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione per difetto di rilevanza,
affermando che «il “diritto vivente” in questione […] si risolve in una regola - insindacabilità della
compensazione delle spese non motivata - della quale è diretto destinatario il giudice dell’impugnazione, e
solo indirettamente il giudice munito del potere (discrezionale) di disporre la compensazione delle spese del
giudizio da lui definito». Sicché il canone dell’insindacabilità della motivazione della compensazione delle
spese di lite, all’epoca ritenuta dalla giurisprudenza di legittimità, costituiva regola di giudizio per il giudice
dell’impugnazione, legittimato in ipotesi a sollevare la relativa questione di legittimità costituzionale, ma non
già per un giudice di primo grado, quale era il giudice rimettente. Da ciò, l’inammissibilità manifesta della
questione di legittimità costituzionale.
La Corte però ha poi aggiunto – seppur senza che ciò costituisse, o concorresse a costituire, la ratio
decidendi della pronuncia di inammissibilità - che il giudice rimettente comunque «aveva consumato il suo
potere decisorio». In ragione di ciò si potrebbe ora sostenere che anche il Tribunale ordinario di Torino abbia
esaurito il suo potere decisorio dopo essersi pronunciato su tutto il merito della causa, di talché la questione
di legittimità costituzione sarebbe, sotto tale profilo, inammissibile.
8.- In realtà, la questione è ammissibile anche sotto questo profilo.
Nel processo civile una sentenza non definitiva è possibile allorché il giudice di primo grado – qual è il
rimettente Tribunale ordinario di Torino ? limiti la sua decisione alla questione di giurisdizione, o a questioni
pregiudiziali o preliminari di merito, o anche solo ad alcune questioni di merito impartendo distinti
provvedimenti per l’ulteriore istruzione della causa (art. 279, secondo comma, cod. proc. civ.). Il giudice
infatti può limitare la decisione ad alcune domande, se riconosce che per esse soltanto non sia necessaria
un’ulteriore istruzione e sempre che la loro «sollecita definizione» sia di «interesse apprezzabile» per la parte
che ne abbia fatto istanza (art. 277, secondo comma, cod. proc. civ.).
Ma se il giudice decide totalmente il merito della causa, accogliendo o rigettando tutte le domande, emette
una sentenza definitiva, alla quale si accompagna la pronuncia sulle spese di lite, che – come già rilevato da
questa Corte (nell’ordinanza n. 314 del 2008, richiamata dalla difesa della società costituita) – ha «natura
accessoria» rispetto alla decisione sul merito. Non di meno però la decisione sulle spese di lite ha una sua
distinta autonomia nella misura in cui è possibile l’impugnativa di questo solo capo della sentenza definitiva
sicché, in tale evenienza, il giudizio di impugnazione è destinato ad avere ad oggetto la sola
regolamentazione delle spese di lite.

Questo legame di accessorietà della pronuncia sulle spese alla sentenza che decida tutte le questioni di
merito non è quindi indissolubile e, in particolare, è recessivo allorché il giudice – come il Tribunale
ordinario di Torino – abbia un dubbio non manifestamente infondato in ordine soltanto alla disposizione che
governa le spese di lite e di cui egli debba fare applicazione.
Il principio della ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.), coniugato con il favor
per l’incidente di legittimità costituzionale ? il quale preclude che alcun giudice possa fare applicazione di
una disposizione di legge della cui legittimità costituzionale dubiti – suggerisce che non sia ritardata la
decisione del merito della causa rispondendo ciò all’«interesse apprezzabile» delle parti alla «sollecita
definizione» di quanto possa essere deciso senza fare applicazione della disposizione indubbiata (ex art. 277,
secondo comma, citato). Del resto, come argomento a fortiori, può richiamarsi la giurisprudenza di questa
Corte che ha ritenuto, al fine dell’ammissibilità della questione di legittimità costituzionale, che il potere
decisorio del giudice rimettente non venga meno neppure quando egli abbia, al contempo, adottato la misura
cautelare richiesta da una parte e, con separato provvedimento, abbia sospeso il giudizio cautelare investendo
questa Corte con incidente di legittimità costituzionale proprio sulla disposizione di cui abbia fatto
applicazione provvisoria e temporanea (ex plurimis, sentenze n. 83 del 2013, n. 236 del 2010, n. 351 e n. 161
del 2008; ordinanza n. 25 del 2006).
Si ha quindi che, nella specie, non erroneamente il Tribunale ordinario di Torino non ha sacrificato
l’interesse delle parti alla sollecita decisione del merito – segnatamente, di tutto il merito – della causa ed ha
legittimamente limitato la sospensione del giudizio, obbligatoria ex art. 23, secondo comma, della legge 11
marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), a quanto
strettamente necessario per la decisione della questione di legittimità costituzionale.
La pur imprecisa qualificazione, ad opera dello stesso tribunale, della sentenza che ha deciso tutto il
merito della causa, come pronuncia “non definitiva” anziché “definitiva” ex art. 279 cod. proc. civ., rileva al
fine non già dell’ammissibilità della questione di legittimità costituzionale, ma del regime dell’impugnazione
di tale pronuncia quanto alla possibilità, o no, della riserva facoltativa d’appello ex art. 340 cod. proc. civ.
9.- Nel merito la questione, sollevata congiuntamente dal Tribunale ordinario di Torino e dal Tribunale
ordinario di Reggio Emilia, è fondata.
10.– La regolamentazione delle spese processuali nel giudizio civile risponde alla regola generale victus
victori fissata dall’art. 91, primo comma, cod. proc. civ. nella parte in cui – ripetendo l’analoga prescrizione
dell’art. 370, primo comma, del codice di procedura civile del 1865 - prevede che «il giudice, con la sentenza
che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore
dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa». Quindi la soccombenza si
accompagna, di norma, alla condanna al pagamento delle spese di lite. L’alea del processo grava sulla parte
soccombente perché è quella che ha dato causa alla lite non riconoscendo, o contrastando, il diritto della
parte vittoriosa ovvero azionando una pretesa rivelatasi insussistente. È giusto, secondo un principio di
responsabilità, che chi è risultato essere nel torto si faccia carico, di norma, anche delle spese di lite, delle
quali invece debba essere ristorata la parte vittoriosa. Questa Corte ha in proposito affermato che «il costo
del processo deve essere sopportato da chi ha reso necessaria l’attività del giudice ed ha occasionato le spese
del suo svolgimento» (sentenza n. 135 del 1987).
La regolamentazione delle spese di lite è processualmente accessoria alla pronuncia del giudice che la
definisce in quanto tale ed è anche funzionalmente servente rispetto alla realizzazione della tutela
giurisdizionale come diritto costituzionalmente garantito (art. 24 Cost.). Il «normale complemento»

dell’accoglimento della domanda – ha affermato questa Corte (sentenza n. 303 del 1986) – è costituito
proprio dalla liquidazione delle spese e delle competenze in favore della parte vittoriosa.
Ma non è una regola assoluta proprio in ragione del carattere accessorio della pronuncia sulle spese di lite,
come emerge dalla giurisprudenza di questa Corte che ha esaminato un’ipotesi di contenzioso - il processo
tributario prima della riforma del 1992 - in cui non era affatto prevista la regolamentazione delle spese di lite
sì che la parte soccombente non ne sopportava l’onere e la parte vittoriosa non ne era ristorata. Ha infatti
affermato questa Corte (sentenza n. 196 del 1982) che «l’istituto della condanna del soccombente nel
pagamento delle spese ha bensì carattere generale, ma non è assoluto e inderogabile»: come è consentito al
giudice di compensare tra le parti le spese di lite ricorrendo le condizioni di cui al secondo comma dell’art.
92 cod. proc. civ. (disposizione attualmente censurata), così rientra nella discrezionalità del legislatore
modulare l’applicazione della regola generale secondo cui alla soccombenza nella causa si accompagna la
condanna al pagamento delle spese di lite. Analogamente, con riferimento al giudizio di opposizione a
sanzioni amministrative, questa Corte (ordinanza n. 117 del 1999) ha ribadito che «l’istituto della condanna
del soccombente al pagamento delle spese di giudizio, pur avendo carattere generale, non ha portata assoluta
ed inderogabile, potendosene profilare la derogabilità sia su iniziativa del giudice del singolo processo,
quando ricorrano giusti motivi ex art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., sia per previsione di legge - con
riguardo al tipo di procedimento - in presenza di elementi che giustifichino la diversificazione dalla regola
generale». Parimenti è stata ritenuta non illegittima una regola di settore che, all’opposto, escludeva in ogni
caso la compensazione delle spese di lite in ipotesi di accoglimento della domanda di risarcimento del danno
esercitata nel processo penale dalla parte offesa costituitasi parte civile nel regime precedente la riforma del
codice di procedura penale del 1987 (sentenza n. 222 del 1985).
Ampia quindi è la discrezionalità di cui gode il legislatore nel dettare norme processuali (ex plurimis,
sentenze n. 270 del 2012, n. 446 del 2007 e n. 158 del 2003) e segnatamente nel regolamentare le spese di
lite. Sicché è ben possibile – ha affermato questa Corte (sentenza n. 157 del 20 14) - «una deroga all’istituto
della condanna del soccombente alla rifusione delle spese di lite in favore della parte vittoriosa, in presenza
di elementi che la giustifichino (sentenze n. 270 del 2012 e n. 196 del 1982), non essendo, quindi,
indefettibilmente coessenziale alla tutela giurisdizionale la ripetizione di dette spese (sentenza n. 117 del
1999)».
11.- Muovendo da questa affermata possibile derogabilità della regola che prescrive la condanna del
soccombente alla rifusione delle spese di lite in favore della parte vittoriosa, vanno ora esaminate le censure
mosse alla disposizione indubbiata dai giudici rimettenti, che sono centrate proprio sulle possibili deroghe a
tale regola. Le quali, da epoca risalente e per lungo tempo, sono state affidate ad una clausola generale che
chiamava in gioco la discrezionalità del giudice al momento della decisione della causa. Disponeva infatti il
secondo comma dell’art. 370 cod. proc. civ. del 1865: «Quando concorrono motivi giusti, le spese possono
dichiararsi compensate in tutto o in parte». Il secondo comma dell’art. 92 cod. proc. civ. del 1940 ha ripetuto
la stessa norma derogatoria: «Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi, il giudice può
compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti». Nella relazione al Guardasigilli per la redazione
del nuovo codice di procedura civile si espresse l’opzione di dare continuità all’analoga disposizione del
codice di rito del 1865 e, con riferimento alla facoltà demandata al giudice di compensare le spese di lite,
oltre al caso di soccombenza parziale, anche quando ricorressero «motivi giusti» – che, con mera inversione
testuale sarebbero diventati «giusti motivi» - si evidenziò che «tale regola […] risponde ad un evidente
criterio di giustizia», ritenendo non «attendibili» alcune osservazioni in senso critico rivolte da una parte
della dottrina contro questa clausola generale, la quale affidava tale criterio derogatorio, nel momento della

decisione della lite, al prudente apprezzamento del giudice, che era quello che meglio conosceva le
peculiarità della causa.
La norma espressa dal secondo comma dell’art. 92 cod. proc. civ., attualmente oggetto delle censure di
illegittimità costituzionale, è rimasta per lungo tempo invariata anche in occasioni di profonde riforme del
codice di rito, quale quella del 1950 apportata con la legge 14 luglio 1950, n. 581 (Ratifica del decreto
legislativo 5 maggio 1948, n. 483, contenente modificazioni e aggiunte al Codice di procedura civile) e
quella del 1990 introdotta con la legge 26 novembre 1990, n. 353 (Provvedimenti urgenti per il processo
civile); ma non è rimasta immune da critiche di parte della dottrina. Ed in effetti, già nella vigenza dell’art.
370 cod. proc. civ. del 1865, un’autorevole dottrina del tempo aveva denunciato l’abuso nella pratica della
compensazione per i motivi più vari.
Il punctum dolens era la motivazione dei «giusti motivi» che facoltizzavano il giudice a compensare,
totalmente o parzialmente, le spese di lite anche in caso di soccombenza totale. Il principio di diritto, che era
stato alla fine fissato in una tralaticia massima di giurisprudenza, affermava che la valutazione dei «giusti
motivi» per la compensazione, totale o parziale, delle spese processuali rientrava nei poteri discrezionali del
giudice di merito e non richiedeva specifica motivazione, restando perciò incensurabile in sede di legittimità,
salvo che risultasse violata la regola secondo cui le spese non possono essere poste a carico della parte
totalmente vittoriosa (argumenta, ex plurimis, da Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 15 luglio
2005, n. 14989).
Sempre più però si poneva in discussione questo orientamento giurisprudenziale fino al radicarsi di un
vero e proprio contrasto, poi composto dalle sezioni unite della Corte di cassazione, che operarono una
significativa correzione di rotta affermando che la decisione di compensazione, totale o parziale, delle spese
di lite per «giusti motivi» dovesse comunque dare conto della relativa statuizione mediante argomenti
specificamente riferiti a questa ovvero attraverso rilievi che, sebbene riguardanti la definizione del merito, si
risolvano in considerazioni giuridiche o di fatto idonee a giustificare tale compensazione delle spese (Corte
di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 30 luglio 2008, n. 20598).
12.- Intanto il legislatore era intervenuto ed aveva modificato, dopo quasi centocinquant’anni, la norma in
questione confermando sì la clausola generale dei «giusti motivi», quale presupposto della compensazione
delle spese di lite, ma richiedendo che questi fossero «esplicitamente indicati nella motivazione» (art. 2,
comma 1, della legge 28 dicembre 2005, n. 263, recante «Interventi correttivi alle modifiche in materia
processuale civile introdotte con il decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla
legge 14 maggio 2005, n. 80, nonché ulteriori modifiche al codice di procedura civile e alle relative
disposizioni di attuazione, al regolamento di cui al regio decreto 17 agosto 1907, n. 642, al codice civile, alla
legge 21 gennaio 1994, n. 53, e disposizioni in tema di diritto alla pensione di reversibilità del coniuge
divorziato»).
La prescrizione dell’espressa indicazione dei «giusti motivi» nella motivazione della decisione del giudice
sulle spese di lite non apparve però ancora sufficiente a contrastare una tendenza, esistente nella prassi, al
frequente ricorso da parte del giudice alla facoltà di compensare le spese di lite anche in caso di
soccombenza totale. Il legislatore è quindi intervenuto una seconda volta proprio sulla clausola generale
accentuandone, in chiave limitativa, il carattere derogatorio rispetto alla regola generale che vuole che alla
soccombenza totale segua anche la condanna al pagamento delle spese di lite. L’art. 45, comma 11, della
legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività
nonché in materia di processo civile), ha così riformulato il secondo comma dell’art. 92: «Se vi è

soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella
motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti».
I «giusti motivi» sono diventati le «gravi ed eccezionali ragioni»: ciò significava che il perimetro della
clausola generale si era ridotto, ritenendo il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità - che si è già
rilevato essere ampia, secondo la giurisprudenza di questa Corte - che una più estesa applicazione della
regola di porre a carico del soccombente totale le spese di lite rafforzasse il principio di responsabilità di chi
promuoveva una lite, o resisteva in giudizio, con conseguente effetto deflativo sul contenzioso civile.
13.- Al fondo di questo contesto riformatore è la consapevolezza, sempre più avvertita, che, a fronte di
una crescente domanda di giustizia, anche in ragione del riconoscimento di nuovi diritti, la giurisdizione sia
una risorsa non illimitata e che misure di contenimento del contenzioso civile debbano essere messe in opera.
Da ciò l’adozione, in epoca recente, di istituti processuali diretti, in chiave preventiva, a favorire la
composizione della lite in altro modo, quali le misure di ADR (Alternative Dispute Resolution), cui sono
riconducibili le procedure di mediazione, la negoziazione assistita, il trasferimento della lite alla sede
arbitrale. Nella stessa linea è la previsione in generale, nel codice di rito (art. 185-bis cod. proc. civ.), di un
momento processuale che vede la formulazione della proposta di conciliazione ad opera del giudice,
introdotta in generale dall’art. 77, comma 1, lettera a), del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni
urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2013, n. 98,
generalizzando quanto era già stato stabilito, qualche anno prima, per le controversie di lavoro attraverso la
modifica dell’art. 420, primo comma, cod. proc. civ., introdotta dall’art. 31, comma 4, della legge 4
novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di
congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi
all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e
disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro).
Per altro verso, quando non di meno la lite arriva all’esito finale della decisione giudiziaria, appare
giustificato che l’alea del processo debba allora gravare sulla parte totalmente soccombente secondo una più
stretta regola generale, limitando alla ricorrenza di «gravi e eccezionali ragioni» la facoltà per il giudice di
compensare le spese di lite.
Questo raggiunto equilibrio è stato però alterato da un’ulteriore, più recente, modifica del censurato
secondo comma dell’art. 92 cod. proc. civ.
14.- Da ultimo infatti, sull’abbrivio riformatore cominciato nel 2005, il legislatore, nel 2014, è andato
ancora oltre ed ha ristretto ulteriormente il perimetro della deroga alla regola che vuole che le spese di lite
gravino sulla parte totalmente soccombente: non più la clausola generale delle «gravi ed eccezionali
ragioni», ma due ipotesi nominate (oltre quella della soccombenza reciproca che non è mai mutata), ossia
l’assoluta novità della questione trattata ed il mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni
dirimenti.
Così ha disposto, da ultimo, l’art. 13, comma 1, del d.l. n. 132 del 2014, convertito, con modificazioni,
nella legge n. 162 del 2014 (norma che, per espressa previsione dell’art. 13, comma 2, del decreto-legge
citato, si applica ai procedimenti introdotti a decorrere dal trentesimo giorno successivo all’entrata in vigore
della relativa legge di conversione, avvenuta l’11 novembre 2014). Si legge nella Relazione al disegno di
legge di conversione in legge del decreto-legge n. 132 del 2014: «Nonostante le modifiche restrittive
introdotte negli ultimi anni, nella pratica applicativa si continua a fare larghissimo uso del potere
discrezionale di compensazione delle spese processuali, con conseguente incentivo alla lite, posto che la

soccombenza perde un suo naturale e rilevante costo, con pari danno per la parte che risulti aver avuto
ragione».
Questo più recente sviluppo normativo, che ha portato alla formulazione della disposizione censurata,
mostra chiaramente che il legislatore ha voluto far riferimento a due ipotesi tassative, oltre quella della
soccombenza reciproca, rimasta invariata nel tempo, come correttamente ritengono entrambi i giudici
rimettenti.
15.- Però la rigidità di queste due sole ipotesi tassative, violando il principio di ragionevolezza e di
eguaglianza, ha lasciato fuori altre analoghe fattispecie riconducibili alla stessa ratio giustificativa.
La prevista ipotesi del mutamento della giurisprudenza su una questione dirimente è connotata dal fatto
che, in sostanza, risulta modificato, in corso di causa, il quadro di riferimento della controversia. Questa
evenienza sopravvenuta - che concerne prevalentemente la giurisprudenza di legittimità, ma che, in
mancanza, può anche riguardare la giurisprudenza di merito - non è di certo nella disponibilità delle parti, le
quali si trovano a doversi confrontare con un nuovo principio di diritto, sì che, nei casi di non prevedibile
overruling, l’affidamento di chi abbia regolato la propria condotta processuale tenendo conto
dell’orientamento poi disatteso e superato, è nondimeno tutelato a determinate condizioni, precisate in una
nota pronuncia delle sezioni unite civili della Corte di cassazione (sentenza 1 1 luglio 2011, n. 15144).
Il fondamento sotteso a siffatta ipotesi – che, ove anche non prevista espressamente, avrebbe potuto
ricavarsi per sussunzione dalla clausola generale delle «gravi ed eccezionali ragioni» - sta appunto nel
sopravvenuto mutamento del quadro di riferimento della causa che altera i termini della lite senza che ciò sia
ascrivibile alla condotta processuale delle parti. Ma tale ratio può rinvenirsi anche in altre analoghe
fattispecie di sopravvenuto mutamento dei termini della controversia senza che nulla possa addebitarsi alle
parti: tra le più evidenti, una norma di interpretazione autentica o più in generale uno ius superveniens,
soprattutto se nella forma di norma con efficacia retroattiva; o una pronuncia di questa Corte, in particolare
se di illegittimità costituzionale; o una decisione di una Corte europea; o una nuova regolamentazione nel
diritto dell’Unione europea; o altre analoghe sopravvenienze. Le quali tutte, ove concernenti una “questione
dirimente” al fine della decisione della controversia, sono connotate da pari “gravità” ed “eccezionalità”, ma
non sono iscrivibili in un rigido catalogo di ipotesi nominate: necessariamente debbono essere rimesse alla
prudente valutazione del giudice della controversia.
Ciò può predicarsi anche per l’altra ipotesi prevista dalla disposizione censurata – l’assoluta novità della
questione – che è riconducibile, più in generale, ad una situazione di oggettiva e marcata incertezza, non
orientata dalla giurisprudenza. In simmetria è possibile ipotizzare altre analoghe situazioni di assoluta
incertezza, in diritto o in fatto, della lite, parimenti riconducibili a «gravi ed eccezionali ragioni».
Del resto la stessa ipotesi della soccombenza reciproca, che, concorrendo con quelle espressamente
nominate dalla disposizione censurata, parimenti facoltizza il giudice della controversia a compensare le
spese di lite, rappresenta un criterio nient’affatto rigido, ma implica una qualche discrezionalità del giudice
che è chiamato ad apprezzare la misura in cui ciascuna parte è al contempo vittoriosa e soccombente, tanto
più che la giurisprudenza di legittimità si va orientando nel ritenere integrata l’ipotesi di soccombenza
reciproca anche in caso di accoglimento parziale dell’unica domanda proposta (Corte di cassazione, sezione
terza civile, sentenza 22 febbraio 2016, n. 3438).
Si ha quindi che contrasta con il principio di ragionevolezza e con quello di eguaglianza (art. 3, primo
comma, Cost.) aver il legislatore del 2014 tenuto fuori dalle fattispecie nominate, che facoltizzano il giudice
a compensare le spese di lite in caso di soccombenza totale, le analoghe ipotesi di sopravvenienze relative a
questioni dirimenti e a quelle di assoluta incertezza, che presentino la stessa, o maggiore, gravità ed

eccezionalità di quelle tipiche espressamente previste dalla disposizione censurata. La rigidità di tale
tassatività ridonda anche in violazione del canone del giusto processo (art. 111, primo comma, Cost.) e del
diritto alla tutela giurisdizionale (art. 24, primo comma, Cost.) perché la prospettiva della condanna al
pagamento delle spese di lite anche in qualsiasi situazione del tutto imprevista ed imprevedibile per la parte
che agisce o resiste in giudizio può costituire una remora ingiustificata a far valere i propri diritti.
16.- Per la riconduzione a legittimità della disposizione censurata può anche considerarsi che più
recentemente lo stesso legislatore, in linea di continuità con l’azione riformatrice degli ultimi anni, è
ritornato alla tecnica normativa della clausola generale delle «gravi ed eccezionali ragioni». Infatti, dopo
l’introduzione della disposizione attualmente censurata, il legislatore ha novellato alcune norme del processo
tributario. In particolare l’art. 9, comma 1, lettera f), numero 2), del decreto legislativo 24 settembre 2015, n.
156 (Misure per la revisione della disciplina degli interpelli e del contenzioso tributario, in attuazione degli
articoli 6 e 10, comma 1, lettere a e b, della legge 11 marzo 2014, n. 23), ha sostituito gli originari commi 2 e
2-bis dell’art. 15 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in
attuazione della delega governativa nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991 n. 413) ed ha, tra l’altro,
previsto che le spese del giudizio possono essere compensate in tutto o in parte, oltre che in caso di
soccombenza reciproca, anche «qualora sussistano gravi ed eccezionali ragioni» che devono essere
espressamente motivate.
Ciò orienta la pronuncia di illegittimità costituzionale che si va a rendere nel senso che parimenti le
ipotesi illegittimamente non considerate dalla disposizione censurata possono identificarsi in quelle che siano
riconducibili a tale clausola generale e che siano analoghe a quelle tipizzate nominativamente nella norma,
nel senso che devono essere di pari, o maggiore, gravità ed eccezionalità. Le quali ultime quindi – l ’«assoluta
novità della questione trattata» ed il «mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti» –
hanno carattere paradigmatico e svolgono una funzione parametrica ed esplicativa della clausola generale.
Va quindi dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ. nella parte in
cui non prevede che il giudice, in caso di soccombenza totale, possa non di meno compensare le spese tra le
parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni.
L’obbligo di motivazione della decisione di compensare le spese di lite, vuoi nelle due ipotesi nominate,
vuoi ove ricorrano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni, discende dalla generale prescrizione dell’art.
111, sesto comma, Cost., che vuole che tutti i provvedimenti giurisdizionali siano motivati.
17.- L’accoglimento della sollevata questione di legittimità costituzionale in riferimento agli artt. 3, primo
comma, 24, primo comma, e 111, primo comma, Cost. – indicati da entrambe le ordinanze di rimessione -
comporta l’assorbimento della questione in riferimento agli ulteriori plurimi parametri indicati nella sola
ordinanza del Tribunale ordinario di Reggio Emilia (artt. 25, primo comma; 102 e 104 Cost.; nonché, per il
tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., l’art. 47 CDFUE e gli artt. 6 e 13 CEDU) perché tutti orientati ad
ottenere la medesima dichiarazione di illegittimità costituzionale.
Residua però il particolare profilo di censura che fa riferimento alla posizione del lavoratore come parte
“debole” del rapporto controverso; censura che costituisce autonoma e distinta questione, ridimensionata ma
non del tutto assorbita dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata.
Il Tribunale ordinario di Reggio Emilia evidenzia la posizione di maggior debolezza del lavoratore nel
contenzioso di lavoro e chiede che la disposizione censurata sia ricondotta a legittimità introducendo
un’ulteriore ragione di compensazione delle spese di lite che tenga conto della natura del rapporto giuridico
dedotto in causa – ossia del rapporto di lavoro subordinato – e della condizione soggettiva della parte attrice
quando è il lavoratore che agisce nei confronti del datore di lavoro.

La questione è posta con riferimento al principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, secondo
comma, Cost., che esigerebbe – secondo il giudice rimettente - un trattamento differenziato, ma di vantaggio,
per il lavoratore in quanto soggetto più “debole”, costretto ad agire giudizialmente, mentre il censurato art.
92, secondo comma, cod. proc. civ. avrebbe in concreto l’effetto opposto.
Sarebbero altresì violati, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., anche gli artt. 14 CEDU e 21
CDFUE, in punto di discriminazione fondata, rispettivamente, «sulla ricchezza» o su «ogni altra condizione»
(art. 14 CEDU) o sul «patrimonio» (art. 21 CDFUE).
18.- La questione non è fondata.
Rileva in proposito da una parte il generale canone della par condicio processuale previsto dal secondo
comma dell’art. 111 Cost. secondo cui «[o]gni processo si svolge […] tra le parti, in condizioni di parità».
Per altro verso la situazione di disparità in cui, in concreto, venga a trovarsi la parte “debole” - ossia quella
per la quale possa essere maggiormente gravoso il costo del processo, anche in termini di rischio di condanna
al pagamento delle spese processuali, sì da costituire un’indiretta remora ad agire o resistere in giudizio -
trova un possibile riequilibrio, secondo il disposto del terzo comma dell’art. 24 Cost., in «appositi istituti»
diretti ad assicurare «ai non abbienti […] i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione».
Nel binario segnato da questi due concorrenti principi costituzionali si colloca la disposizione censurata
che, non considerando la situazione soggettiva, nel rapporto controverso, della parte totalmente
soccombente, è ispirata al principio generale della par condicio processuale. Anche le due richiamate ipotesi
che facoltizzano il giudice a compensare, in tutto o in parte, le spese di lite - le quali, a seguito della presente
dichiarazione di illegittimità costituzionale, sono non più tassative, ma parametriche di altre analoghe ipotesi
di «gravi e eccezionali ragioni» – rinviano comunque a condizioni prevalentemente oggettive e non già a
situazioni strettamente soggettive della parte soccombente, quale l’essere essa la parte “debole” del rapporto
controverso.
Finanche la legge 11 agosto 1973, n. 533 (Disciplina delle controversie individuali di lavoro e delle
controversie in materia di previdenza e di assistenza obbligatorie) - la quale pur conteneva disposizioni
ispirate al favor per questo contenzioso al fine di agevolare la tutela giurisdizionale del lavoratore, quali
quelle che prevedevano l’esenzione da ogni spesa o tassa (art. 10) ed il patrocinio a spese dello Stato per le
parti non abbienti (art. 11) – non aveva derogato al disposto dell’art. 92 cod. proc. civ., quanto alla condanna
della parte totalmente soccombente al pagamento delle spese di lite. In ogni caso per il lavoratore operava la
regola generale della condanna della parte totalmente soccombente al pagamento delle spese di lite, salva la
facoltà per il giudice di compensarle sulla base della già richiamata clausola generale, all’epoca vigente, dei
«giusti motivi». Ed opera tuttora la stessa regola, salva la facoltà per il giudice di compensarle ove ricorrano,
secondo la disciplina attualmente vigente, le due ipotesi nominativamente previste dal secondo comma
dell’art. 92 cod. proc. civ., oltre – a seguito della presente dichiarazione di illegittimità costituzionale della
disposizione censurata – anche altre analoghe «gravi ed eccezionali ragioni».
Solo per le controversie in materia previdenziale proposte nei confronti degli istituti di previdenza ed
assistenza l’art. 9 della legge n. 533 del 1973 aveva sostituito l’art. 152 delle disposizioni per l’attuazione del
codice di procedura civile, disponendo che il lavoratore soccombente nei giudizi promossi per ottenere
prestazioni previdenziali non era assoggettato al pagamento di spese, competenze ed onorari a favore degli
istituti di assistenza e previdenza, a meno che la pretesa non fosse manifestamente infondata e temeraria;
disposizione questa, peraltro anticipata, in una portata più limitata, dal dettato dell’art. 57 della legge 30
aprile 1969, n. 153 (Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale) e
successivamente estesa anche alle controversie di natura assistenziale dalla sentenza n. 85 del 1979.

Ma il collegamento dell’esonero con la condizione di «non abbiente» è stato dapprima prefigurato, come
possibile, da questa Corte (sentenza n. 135 del 1987) e poi posto a fondamento della dichiarazione di
illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 2, del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti
in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali), convertito, con
modificazioni, in legge 14 novembre 1992, n. 438, per aver, tale disposizione, operato un’indiscriminata
abrogazione dell’esonero stesso, trascurando qualunque distinzione tra abbienti e non abbienti (sentenza n.
134 del 1994); esonero poi ripristinato dall’art. 42, comma 11, del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269
(Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici),
convertito, con modificazioni, nella legge 24 novembre 2003, n. 326, in favore della parte soccombente che
risulti «non abbiente», essendo l’esonero condizionato all’integrazione di un requisito reddituale
significativo della debolezza economica del ricorrente (ordinanza n. 71 del 1998).
Quindi da una parte la condizione soggettiva di “lavoratore” non ha mai comportato alcun esonero
dall’obbligo di rifusione delle spese processuali in caso di soccombenza totale nelle controversie promosse
nei confronti del datore di lavoro; d’altra parte nelle controversie di previdenza ed assistenza sociale,
promosse nei confronti degli enti che erogano prestazioni di tale natura, la condizione di assicurato o
beneficiario della prestazione deve concorrere con un requisito reddituale perché, in via eccezionale, possa
comportare siffatto esonero.
La ragione di tale eccezione in favore della parte soccombente «non abbiente», e quindi “debole”, risiede
nella diretta riferibilità della prestazione previdenziale o assistenziale, oggetto del contenzioso, alla speciale
tutela prevista dal secondo comma dell’art. 38 Cost., che mira a rimuovere, o ad alleviare, la situazione di
bisogno e di difficoltà dell’assicurato o dell’assistito.
Invece la qualità di “lavoratore” della parte che agisce (o resiste), nel giudizio avente ad oggetto diritti ed
obblighi nascenti dal rapporto di lavoro, non costituisce, di per sé sola, ragione sufficiente – pur nell’ottica
della tendenziale rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale alla tutela giurisdizionale (art. 3,
secondo comma, Cost.) - per derogare al generale canone di par condicio processuale quanto all’obbligo di
rifusione delle spese processuali a carico della parte interamente soccombente. Di ciò non si è dubitato in
riferimento all’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ. nel testo vigente fino al 2009; ma lo stesso può
affermarsi nell’attuale formulazione della medesima disposizione, quale risultante dalla presente
dichiarazione di illegittimità costituzionale. Dalla quale comunque consegue che la circostanza – segnalata
dal giudice rimettente – che il lavoratore, per la tutela di suoi diritti, debba talora promuovere un giudizio
senza poter conoscere elementi di fatto, rilevanti e decisivi, che sono nella disponibilità del solo datore di
lavoro (cosiddetto contenzioso a controprova), costituisce elemento valutabile dal giudice della controversia
al fine di riscontrare, o no, una situazione di assoluta incertezza in ordine a questioni di fatto in ipotesi
riconducibili alle «gravi ed eccezionali ragioni» che consentono al giudice la compensazione delle spese di
lite.
19.- Né la ritenuta non fondatezza della questione di legittimità costituzionale è revocata in dubbio dai
citati parametri sovranazionali interposti, che vietano trattamenti discriminatori basati sul censo.
La considerazione che sovente il contenzioso di lavoro possa presentarsi in termini sostanzialmente
diseguali, nel senso che il lavoratore ricorrente, che agisca nei confronti del datore di lavoro, sia parte
“debole” del rapporto controverso, giustifica norme di favore su un piano diverso da quello della
regolamentazione delle spese di lite, una volta che quest’ultima è resa meno rigida a seguito della presente
dichiarazione di illegittimità costituzionale del secondo comma dell’art. 92 cod. proc. civ. con l’innesto della
clausola generale delle «gravi ed eccezionali ragioni». Si sono già ricordate le disposizioni di favore

contenute negli artt. 10 e 11 della legge n. 533 del 1973 (peraltro successivamente abrogati); ad esse può
aggiungersi anche l’art. 13, comma 3, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo A)», il quale prevede che il
contributo unificato per le spese di giustizia è ridotto alla metà per le controversie individuali di lavoro o
concernenti rapporti di pubblico impiego.
Più in generale può dirsi che è rimesso alla discrezionalità del legislatore ampliare questo favor
praestatoris, ad esempio rimodulando, in termini di minor rigore o finanche di esonero, il previsto raddoppio
di tale contributo in caso di rigetto integrale, o di inammissibilità, o di improcedibilità dell’impugnazione
(art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002).
20.- In conclusione risulta non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale
ordinario di Reggio Emilia, mirante ad innestare nella disposizione censurata, come deroga alla regola
secondo cui la parte soccombente è condannata alla rifusione delle spese di lite in favore della parte
vittoriosa – oltre alle ipotesi nominativamente previste dalla disposizione stessa, come integrate dalla
dichiarazione di illegittimità costituzionale nei termini di cui sopra al punto 16. – un’ulteriore deroga centrata
sulla natura della lite, perché controversia di lavoro, ed a favore solo del lavoratore che agisca in giudizio nei
confronti del datore di lavoro.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara inammissibile l’intervento della Confederazione generale italiana del lavoro;
2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma, del codice di procedura civile, nel
testo modificato dall’art. 13, comma 1, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132 (Misure urgenti di
degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile),
convertito, con modificazioni, nella legge 10 novembre 2014, n. 162, nella parte in cui non prevede che il
giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre
analoghe gravi ed eccezionali ragioni;
3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma, cod. proc.
civ., nel testo modificato dall’art. 13, comma 1, del d. l. n. 132 del 2014, convertito, con modificazioni, nella
legge n. 162 del 2014, sollevate, in riferimento agli artt. 3, secondo comma, e 117, primo comma, della
Costituzione, in relazione agli artt. 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto
1955, n. 848, e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre
2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia, in funzione di
giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2018.
F.to: Giorgio LATTANZI Presidente, Giovanni AMOROSO Redattore, Roberto MILANA Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 19 aprile 2018.