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SENTENZA sul ricorso 5561-2016 proposto da:  

Data pubblicazione: 31/05/2018

SENTENZA sul ricorso 5561-2016 -omissis- R.G.N. 5561/16 Udienza del 7 marzo 2018

FATTI DI CAUSA

1. Nel 2003 la società .. d'ora innanzi, per brevità, "la ICR") convenne dinanzi al Tribunale di Lecce 1 e 2 esponendo che: -) nel 1982 la società Istituto Bancario San Paolo s.p.a. aveva concesso un mutuo alla società  S.r.l., garantito da ipoteca immobiliare;

-) la società debitrice non aveva restituito le somme ricevute a mutuo e, sopravvenuto il suo fallimento, la società mutuante aveva conferito mandato all'avvocato * perché chiedesse l'ammissione al passivo fallimentare del credito vantato dalla banca, pari ad euro 159.802,20; -) tale credito venne ammesso pressoché integralmente al passivo;

-) tuttavia il curatore fallimentare RC, nel depositare nella cancelleria del Tribunale il piano di riparto finale, postergò l'istituto San Paolo, creditore ipotecario di primo grado, ad un altro creditore, che era garantito da un'ipoteca di secondo grado; -) l'avvocato *  non si avvide dell'errore, e non depositò nei 10 giorni prescritti dalla legge alcuna osservazione al piano di riparto;

-) il suddetto progetto di riparto, di conseguenza, venne approvato; vennero effettuati i pagamenti in esso previsti, ed il fallimento venne dichiarato chiuso;

-) in conseguenza dei fatti suddetti l'Istituto Bancario San Paolo aveva visto vanificare la propria garanzia reale;

-) il credito dell'Istituto Bancario San Paolo, per effetto di successive cessioni, era pervenuto alla società attrice. La ICR concluse perciò chiedendo la condanna dei convenuti, in solido, al risarcimento del danno da essi causato all'Istituto Bancario San Paolo con le rispettive condotte. 

Ambedue i convenuti si costituirono e negarono la propria responsabilità; E  chiese altresì di essere tenuto indenne dal proprio assicuratore della responsabilità civile, la società Assicurazioni Generali S.p.A., che chiamò in causa. La Generali si costituì, ammettendo la sussistenza del proprio obbligo indennitario, ma negando la responsabilità del proprio assicurato.

3. Con sentenza 5 luglio 2010 n. 1451 il Tribunale di Lecce accolse la domanda nei confronti del solo E e condannò questi ed il suo assicuratore, in solido, al risarcimento del danno in favore della ICR.

4. La sentenza venne appellata in via principale da E ed in via incidentale dalla ICR e dalla Generali. (vi) Con sentenza 4 febbraio 2016 n. 102, la Corte d'appello di Lecce accolse tutte e tre le impugnazioni. Per quanto in questa sede ancora rileva, la Corte d'appello ritenne che: -) la lesione del credito patita dall'Istituto Bancario San Paolo fosse ascrivibile, in misura paritaria, tanto al curatore fallimentare RC, per avere redatto un piano di riparto erroneo; quanto all'avvocato E per non aver formulato osservazioni, né fatto rilevare in altro modo il suddetto errore;

-) era irrilevante la circostanza che il decreto di approvazione del piano di riparto non fosse stato comunicato dalla cancelleria della sezione fallimentare del Tribunale all'avvocato * dal momento che questi era comunque venuto a sapere, prima della chiusura del fallimento, dell'approvazione del piano di riparto, ed avrebbe di conseguenza ancora potuto proporre reclamo avverso il suddetto decreto di esecutività del piano di riparto, ovvero avrebbe potuto consigliare al proprio cliente di farlo;

-) la ICR, per effetto della ritenuta responsabilità solidale dei due convenuti, dovesse restituire alla Generali la metà dell'indennizzo da questa ricevuto, in esecuzione della sentenza di primo grado.

5. La sentenza d'appello è stata impugnata per cassazione in via principale da RC, con ricorso fondato su sette motivi; in via incidentale da ED con ricorso fondato su tre motivi, e dalla ICR, con ricorso fondato su un motivo. ED ha resistito con un controricorso al ricorso incidentale proposto dalla ICR. La ICR, RC ed ED hanno depositato memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo del ricorso principale (RC). r 1.1.

Col primo motivo di ricorso RC sostiene che la sentenza impugnata sarebbe affetta sia da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell'art. 360, n. 3, c.p.c. (lamenta, in particolare, la violazione degli artt. 83, 100, 101, 102, 112, 327, 330, 331, 332, 333, 345, 348 ter c.p.c.; 2055 c.c.); sia da un vizio di nullità processuale, ai sensi dell'art. 360, n. 4, c.p.c.. Il motivo, se pur formalmente unitario, contiene tre censure che possono essere così riassunte: (a) erroneamente la Corte d'appello ha condannato al risarcimento anche RC, in quanto in primo grado né il convenuto principale SD né il suo assicuratore Generali s.p.a., avevano formulato domande di sorta nei confronti di questi; pertanto il motivo di appello, col quale l'uno e l'altra avevano chiesto la condanna al risarcimento anche di RC doveva ritenersi inammissibile; (b) l'appello incidentale proposto dalla società ICR nei confronti di RC era inammissibile, perché la comparsa di costituzione e risposta che lo conteneva non era mai stata notificata all'appellato; (c) la terza censura proposta dal ricorrente principale è di assai difficile comprensione; in essa, infatti, il ricorrente affastella i seguenti rilievi: (c') poiché le domande contro di lui proposte dagli appellanti principale ed incidentale erano nuove, illegittimamente esse vennero accolte; (c") la domanda proposta in grado di appello dalla ICR era comunque inammissibile per carenza di interesse, sia perché la società creditrice aveva già ricevuto il pagamento del dovuto; sia perché "ben poteva rivolgersi solo al professor SD"; (d) quand'anche si volesse ritenere che correttamente la Corte (v d'appello avesse ravvisato una responsabilità in capo a RC l'accertamento di tale responsabilità avrebbe potuto comportare al più la esclusione in tutto o in parte della responsabilità dell'altro convenuto, ma non una condanna solidale di tutti e due; (f) in ogni caso nell'atto d'appello incidentale proposto dalla ICR erano addebitati al curatore fallimentare profili di colpa mai prospettati nel giudizio di primo grado.

1.2. Tutte le censure prospettate nel primo motivo di ricorso sono manifestamente infondate.

1.3. Per quanto attiene la prima censura, la condanna del curatore fallimentare venne richiesta sin dal primo grado dalla società ICR, e tanto bastava perché la Corte d'appello potesse esaminare l'operato di RC ed affermarne la responsabilità.

1.4. Per quanto attiene la seconda censura, essa è infondata, in quanto, essendo l'appellato RC costituito in grado di appello, l'appellante incidentale ICR non aveva alcun onere di notificargli la propria comparsa di costituzione e risposta contenente l'impugnazione incidentale. Questa Corte, infatti, ha già stabilito che l'appello incidentale è ritualmente proposto con la comparsa di costituzione, e anche se questa non venga notificata ad un appellato contumace, l'appello incidentale non è per ciò solo inammissibile, ma sorge in tal caso soltanto l'onere per il giudice di assegnare all'appellante incidentale un termine per la regolarizzazione del contraddittorio (Sez. 3, Sentenza n. 2359 del 09/09/1966, Rv. 324580 -

01). A fortiori, dunque, era ammissibile l'appello incidentale nel presente giudizio, nel quale RC era ritualmente costituito nel secondo grado di giudizio.

1.4. Per quanto attiene la terza censura, tutti i profili in cui essa si articola sono, più che infondati, quasi temerari.

Ed infatti: -) la domanda di condanna del curatore fallimentare proposta dalla società ICR non era nuova, essendo già contenuta nell'atto di citazione; -) la ICR aveva ovviamente interesse alla pronuncia che affermasse la responsabilità solidale di due soggetti invece di uno, perché ciò avrebbe attenuato od escluso il rischio di incapienza del patrimonio del debitore;

-) la circostanza che essa avesse già "ottenuto il pagamento del dovuto" non può essere presa in esame in questa sede, in quanto il ricorrente, in violazione dell'onere imposto dall'articolo 366, n. 3 e 6, c.p.c., non indica dove e quando abbia dedotto tale circostanza, né da quale fonte di prova risultasse; in ogni caso, qualunque pagamento ricevuto dalla ICR in esecuzione d'una sentenza impugnata era, per ciò solo, instabile, e non estingueva in modo definitivo l'obbligazione;

-) quanto, infine, alla sorprendente affermazione del ricorrente principale secondo cui la ICR "ben poteva rivolgersi solo al professor SD", basterà ricordare alla difesa del ricorrente il millenario principio di cui all'art. 1292, primo periodo, c.c., secondo cui nell'obbligazione solidale dal lato passivo, ciascun debitore "può essere costretto all'adempimento per la totalità", ed è dunque facoltà del creditore scegliere se escutere un condebitore, più condebitori, o tutti i condebitori.

1.5. Per quanto attiene la quarta censura, essa è manifestamente infondata: la condanna di RC al risarcimento del danno venne richiesta della società ICR e nei confronti di questa pronunciata; pertanto nulla rileva che l'altro convenuto non avesse formulato domande di accertamento o di condanna nei confronti dell'odierno ricorrente principale.

1.6. Per quanto attiene la quinta censura, infine, essa è manifestamente infondata: quali che fossero i profili di colpa addebitati al curatore fallimentare nell'atto d'appello, quel che rileva è che il gravame venne accolto sul presupposto che il curatore per errore alterò l'ordine delle ipoteche, e tale profilo di colpa fu debitamente dedotto dalla società ICR sin dall'atto di citazione.

2. Il secondo motivo del ricorso principale.

2.1.Col secondo motivo il ricorrente principale lamenta, ai sensi degli articoli 360, nn. 3 e 4, c.p.c., la violazione degli articoli 163 e 164 c.p.c. Sostiene che nel giudizio di primo grado la società ICR invocò la responsabilità del curatore fallimentare senza indicare i fatti costitutivi di tale pretesa, che vennero precisati solo in grado di appello.

La domanda formulata in primo grado dalla ICR si sarebbe perciò dovuta dichiarare nulla, anche perché, se fosse stata precisata, sarebbero potute emergere responsabilità anche di terzi e, di conseguenza, la necessità della "valutazione dell'esistenza di eventuali corresponsabilità di altri soggetti, la cui partecipazione avrebbe potuto essere ritenuta necessaria ai sensi dell'articolo 102 c.p.c.". 2.2. Il motivo è tanto inammissibile, quanto infondato. In primo luogo, il motivo è inammissibile perché non precisa se, in /W che termini e quando sia stata sollevata l'eccezione di nullità dell'atto , di citazione. In ogni caso, il convenuto in primo grado si difese nel merito, con tale condotta sanando ogni nullità. Incomprensibile, poi, è il richiamo compiuto dal ricorrente all'articolo 102 c.p.c., dal momento che quand'anche vi fossero stati altri corresponsabili oltre il curatore fallimentare, essi sarebbero stati obbligati in solido ai sensi dell'articolo 2055 c.c., ed in quanto coobbligati solidali non avrebbero mai potuto assumere la veste di litisconsorti necessari, noto essendo che quando vi è solidarietà non vi è mai litisconsorzio necessario, se non nei casi espressamente stabiliti dalla legge. 3. Il terzo motivo del ricorso principale.R.G.N. 5561/16 Udienza del 7 marzo 2018

3.1. Col terzo motivo il ricorrente principale lamenta, ai sensi dell'articolo 360, nn. 3 e 4, la violazione dell'articolo 2041 c.c. Nel motivo, molto confuso, il ricorrente parrebbe sostenere, da un lato, che non vi era rapporto di causalità tra l'errore da lui commesso ed il danno patito dalla società creditrice; e dall'altro che in ogni caso quel danno era stato provocato dall'errore dell'avvocato SD e dalla negligenza della stessa società creditrice.

3.2. Il motivo è inammissibile: esso infatti censura la ricostruzione del nesso di causalità, la quale costituisce un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito (Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 13096 del 24/05/2017, Rv. 644388 - 01; Sez. 1, Sentenza n. 3458 del 20/02/2015, Rv. 634454 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 4439 del 25/02/2014, Rv. 630127 - 01). 4. Il quarto motivo del ricorso principale.

4.1. Col quarto motivo del proprio ricorso il ricorrente principale lamenta, ai sensi dell'art. 360, n. 4 e 5 c.p.c., che l'appello incidentale dell'ICR si sarebbe dovuto dichiarare inammissibile per "contraddittorietà"; ciò sul presupposto che, dovendo il mandante rispondere del fatto del mandatario, la ICR doveva ritenersi responsabile del danno che alla stessa aveva causato il suo incaricato, ovvero l'avvocato  SD.

4.2. Il motivo è quasi temerario. Il mandante, infatti, risponde del fatto del mandatario nel caso in cui quest'ultimo provochi un danno a terzi; ma nel caso in cui il mandatario causi un danno al mandante, quest'ultimo - come qualsiasi danneggiato - può invocare pacificamente l'eventuale corresponsabilità  dei soggetti che, in concorso col mandatario, abbiano concorso alla causazione del danno.

Ove poi, nel suo incomprensibile ermetismo, con questo motivo il ricorrente principale avesse inteso censurare la sentenza nella parte in cui ha escluso un eventuale concorso di colpa della società danneggiata, esso sarebbe manifestamente inammissibile, sia per la totale mancanza di illustrazione, sia perché l'accertamento del concorso di colpa della vittima, ai sensi del 1227 c.c., costituisce un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito e non sindacabile in sede di legittimità.

5. Il quinto motivo del ricorso principale.

5.1. Col quinto motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell'art. 360, nn. 3, 4 e 5, c.p.c., che il giudice di merito avrebbe erroneamente cumulato interessi e rivalutazione al capitale del credito risarcitorio. Sostiene che il credito della ICR nei confronti del fallimento era un  credito di valuta, e di conseguenza se non vi fosse stato l'errore, la curatela fallimentare avrebbe dovuto pagare alla ICR solo il capitale e gli interessi, e non anche il maggior danno.

5.2. Il motivo è manifestamente infondato. Nei confronti del curatore fallimentare la società ICR ha chiesto il risarcimento del danno aquiliano derivante da lesione del credito. Il credito risarcitorio scaturente dalla lesione d'un credito non condivide la natura di quest'ultimo. Il credito risarcitorio è infatti una obbligazione nuova e diversa rispetto al credito andato perduto in conseguenza del fatto illecito.

Pertanto, anche quando il credito andato perduto era un credito di valuta, il credito risarcitorio che ne prende il posto è sempre un credito di valore. Correttamente, pertanto, la Corte d'appello ha applicato le regole di matrice giurisprudenziale che disciplinano il ritardato adempimento delle obbligazioni di valore (stabilite da Sez. U, Sentenza n. 1712 del 17/02/1995, Rv. 490480 - 01), e non l'art. 1224 c.c..

6. Il sesto motivo del ricorso principale. 6.1. Col sesto motivo il ricorrente principale lamenta, ai sensi dell'articolo 360, n. 3 e 5, c.p.c., la violazione dell'articolo 2055 c.c., oltre che l'omesso esame di un fatto decisivo. Sostiene che erroneamente la Corte d'appello ha condannato la ICR, in accoglimento del gravame proposto dalla società Generali, a restituire a quest'ultima "le somme versate in esubero rispetto alla quota di responsabilità paritaria dell'avvocato SD" . Sostiene che egli ha interesse a far dichiarare l'illegittimità della sentenza su questo punto, perché "la sentenza di primo grado è passata in giudicato riguardo al rapporto tra ICR e SD (nonché Generali)", con la conseguenza che né  SD, né la società Generali "mai potrebbero rivalersi nei suoi confronti".

6.2. Il motivo è manifestamente infondato. Il ricorrente lamenta la violazione dell'art. 2055 c.c.. Il primo comma dell'art. 2055 c.c. stabilisce che "se il fatto dannoso è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento del danno". Nel caso di specie la Corte d'appello, accertato che tanto il curatore, quanto il professionista, avevano concausato il danno, li ha condannati in solido al risarcimento. Lungi, dunque, dall'esservi state violazioni di tale norma, la corte d'appello l'ha puntualmente applicata.

6.3. Il secondo comma della norma in esame soggiunge che "colui che ha risarcito il danno ha regresso contro ciascuno degli altri".

Nel presente giudizio non sono state formulate domande di regresso, né la sentenza impugnata contiene statuizioni in tal senso. E' arduo, dunque, comprendere come il ricorrente possa dire violata una norma che la Corte d'appello non ha applicato, e non doveva applicare. Vale la pena soggiungere, nell'interesse della legge ed a dissipare eventuali dubbi che dovessero porsi dopo la definizione del presente giudizio, che nessun giudicato interno si è formato in merito all'esistenza, all'inesistenza od alla misura del diritto di ciascun coobbligato solidale, o dei loro aventi causa, a promuovere domanda di regresso ex art. 1299 c.c. nei confronti dell'altro condebitore.

7. Il settimo motivo del ricorso principale. 7.1. Col settimo motivo del ricorso il ricorrente principale lamenta, ai sensi dell'articolo 360, n. 3, c.p.c., la violazione degli articoli 99 e r 100 c.p.c. Nell'illustrazione del motivo si sostiene che "la mancata impugnazione del piano di riparto, ammesso che all'ufficio del fallimento fosse apparso evidente l'errore della ripartizione delle somme secondo le rispettive cause legittime di prelazione, non avrebbe potuto determinarne una modifica in autotutela, senza violazione delle norme sul principio della domanda e dell'interesse ad agire. Solo l'azione difensiva di ICR avrebbe potuto determinare la correzione dell'errore. Quindi imputet sibi. La società non può addebitare ad altri gli effetti della propria inerzia".

7.2. Il motivo è inammissibile per totale mancanza d'una intelligibile illustrazione. Gioverà ricordare, al riguardo, che un ricorso per cassazione è un atto nel quale si chiede al ricorrente di articolare un ragionamento sillogistico così scandito: (a) quale sia stata la decisione di merito; (b) quale sarebbe dovuta essere la decisione di merito; (c) quale regola o principio sia stato violato, per effetto dello scarto tra decisione pronunciata e decisione attesa. Nel nostro caso, a parte qualsiasi rilievo sulla consequenzialità e sulla coerenza logica della tecnica scrittoria adottata dalla difesa del ricorrente, resta il fatto che nelle deduzioni sopra trascritte non è ravvisabile alcuna chiara censura. Sul piano dell'analisi del periodo, in buona sostanza in esse si dice soltanto che la ICR avrebbe dovuto impugnare tempestivamente il piano di riparto, e non lo fece. Il che propriamente non è una censura, ma una contrapposizione della propria valutazione a quella del giudice di merito. r Sul piano della logica formale, poi, il ricorrente non spiega in cosa sia consistito l'errore, e quale la diversa regola da applicare. Un ricorso così concepito non può che dirsi inammissibile per totale aspecificità.

Questa Corte, infatti, può conoscere solo degli errori correttamente censurati, ma non può rilevarne d'ufficio, né può pretendersi che essa intuisca quale tipo di censura abbia inteso proporre il ricorrente, quando questi esponga le sue doglianze con tecnica scrittoria oscura, come già ripetutamente affermato da questa Corte (da ultimo, in tal senso, Sez. 3, Sentenza 28.2.2017 n. 5036).

7.3. Ove, poi, si volesse benevolmente supporre che con questo motivo il ricorrente abbia inteso lamentare l'erroneità della sentenza, nella parte in cui ha escluso un concorso colposo della società danneggiata nella produzione del danno, esso sarebbe inammissibile perché censura un accertamento di fatto; e comunque sarebbe manifestamente infondato, dal momento che è colui il quale commette un errore che ne deve risponderne, e non certo chi ne subisce gli effetti.

8. Il primo motivo del ricorso incidentale di SD  8.1. Col primo motivo del suo ricorso incidentale SD  lamenta, ai sensi dell'articolo 360, n. 3, c.p.c., la violazione degli articoli 1176, 1223, 1227 c.c.; 136 c.p.c.; 41 c.p.c.; 24 cost.Il motivo, se pur formalmente unitario, contiene due censure. Con una prima censura il ricorrente incidentale lamenta l'erroneità della sentenza nella parte in cui ha ravvisato a suo carico una condotta colposa. Sostiene, in estrema sintesi, che presentare delle osservazioni al piano di riparto è una mera facoltà, e il mancato esercizio di una facoltà r non può costituire una condotta negligente tale da radicare, ai sensi dell'articolo 1176, comma secondo, c.c., una pronuncia di condanna nei confronti del professionista che non se ne sia avvalso.

8.2. La censura è infondata. Il professionista legale ha l'obbligo di tutelare gli interessi del cliente, e da tale obbligo discende, ai sensi dell'articolo 1374 c.c., quello di prendere conoscenza dei provvedimenti giurisdizionali che lo riguardano. Nel caso di specie, dal tenore complessivo della sentenza impugnata emerge in modo inequivoco che all'avvocato SD il giudice di merito addebitò a titolo di colpa non già il fatto di non essersi avvalso di una facoltà, ma il fatto di non aver rilevato un errore, rilevabile con l'uso dell'ordinaria diligenza da lui esigibile, e non averlo segnalato agli organi competenti ad emendarlo.

Una statuizione, dunque, coerente in punto di diritto con la consolidata giurisprudenza di questa Corte, secondo cui devia dal precetto di cui all'art. 1176, comma secondo, c.c., il professionista il quale tenga una condotta diversa da quella che, nelle medesime circostanze, avrebbe tenuto il c.d. homo eiusdem generis et condicionis, vale a dire il professionista "medio".

Con l'avvertenza che, per questa Corte, il professionista "medio" di cui all'art. 1176, comma secondo, c.c. (vale a dire la figura ideale che costituisce il parametro di valutazione della condotta che si assume colposa) non corrisponde ad un professionista "mediocre", ma ad un professionista "bravo", ovvero sufficientemente preparato, zelante e solerte (ex multis, in tal senso, Sez. 3, Sentenza n. 24213 del 27/11/2015, Rv. 637836 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 10289 del 20/05/2015, Rv. 635467 - 01; Sez. 2, Sentenza n. 10431 del 08/08/2000, Rv. 539314 - 01; Sez. 2, Sentenza n. 9877 del r 27/07/2000, Rv. 538862 - 01; Sez. 2, Sentenza n. 566 del 19/01/2000, Rv. 532973 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 5946 del 15/06/1999, Rv. 527535 - 01; Sez. 2, Sentenza n. 7618 del 14/08/1997, Rv. 506788 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 7127 del 29/08/1987, Rv. 455277 - 01; non sarà superfluo ricordare che tale principio rimonta a Sez. 3, Sentenza n. 3255 del 25/10/1972, Rv. 361064 - 01). 8.3.

Con una seconda censura, anch'essa formulata nel contesto del primo motivo di ricorso, SD lamenta l'erroneità della sentenza d'appello nella parte in cui ha escluso che alla produzione del danno avesse concorso la condotta colposa della società sua cliente. Sostiene che tale condotta colposa sarebbe consistita nell'espresso rifiuto di conferirgli un mandato per l'impugnazione del provvedimento di chiusura del fallimento. Deduce che, benché all'epoca dei fatti si ritenesse che il termine per l'impugnazione del decreto di chiusura del fallimento decorrenze dalla sua pubblicazione e non dalla sua comunicazione, nondimeno se la società creditrice gli avesse conferito il mandato per impugnare quel provvedimento, egli avrebbe potuto sostenere in quel giudizio l'illegittimità costituzionale di tale interpretazione, illegittimità che effettivamente venne ravvisata dalla Corte costituzionale qualche anno appresso.

8.4. Anche questa censura è infondata. Da un lato, infatti, esso sottopone a questa Corte una nutrita serie di valutazioni ed accertamenti squisitamente di merito: se la cliente avesse o non avesse rifiutato di conferire il mandato; se i tempi per impugnare il provvedimento di chiusura del fallimento furono o non furono congrui; se vi era o non vi era lo spazio per una impugnazione; se l'impugnazione avrebbe o non avrebbe potuto avere ragionevole possibilità di successo; se ad una certa data il professionista poteva o non poteva prevedere l'imminente chiusura del fallimento. Dall'altro lato, in ogni caso, il motivo sarebbe infondato anche in punto di diritto.

È principio risalente e pacifico, nella giurisprudenza di questa Corte, quello secondo cui la condotta tenuta dal danneggiato, per poter essere ritenuta una concausa di danno, ai sensi dell'articolo 1227 c.c., deve essere una condotta colposa. Ma la condotta del danneggiato non può mai ritenersi colposa quando egli abbia omesso di compiere un'attività che, al momento in cui venne omessa, era onerosa, e presentava comunque un esito incerto. L'art. 1227, comma primo, c.c., addossa R.G.N. 5561/16 Udienza del 7 marzo 2018 infatti al danneggiato l'onere di comportarsi con una diligenza ordinaria, ma non di tenere condotte straordinarie o sostenere sforzi inutili (così già Sez. 2, Sentenza n. 7618 del 14/08/1997, Rv. 506789 - 01, secondo cui "in relazione a fattispecie di responsabilità professionale di un avvocato nei confronti del cliente, non rientra tra i doveri di correttezza di quest'ultimo ex art. 1227 cod. dv., quello di intraprendere un'azione giudiziaria aggiuntiva con accollo dei costi e dei rischi relativi).

Ciò posto in diritto, si rileva in fatto che proporre un'impugnazione avverso un provvedimento giurisdizionale, soprattutto in un'epoca in cui con estrema probabilità quelle impugnazione sarebbe stata dichiarata inammissibile perché tardiva, costituisce senza dubbio un'attività onerosa (perché comporta un esborso di denaro), e dall'esito incerto.

Ne consegue che in nessun caso, dinanzi ad una condotta di questo tipo, essa si sarebbe potuta ritenere "colposa" ai sensi dell'articolo (fr 1227 c.c.. Con riferimento, poi, alla specifica attività professionale dell'avvocato, questa Corte già da molti anni ha stabilito che la responsabilità professionale dell'avvocato "non è esclusa né ridotta quando [le scelte difensive] siano state sollecitate dal cliente stesso, poiché costituisce compito esclusivo del legale la scelta della linea tecnica da seguire nella prestazione dell'attività professionale"(Sez. 3, Sentenza n. 10289 del 20/05/2015, Rv. 635467 - 01; nello stesso senso, Sez. 2, Sentenza n. 3463 del 18/05/1988, Rv. 458812 - 01).

9. Il secondo motivo del ricorso incidentale di SD. 9.1. Col secondo motivo di ricorso il ricorrente lamenta il vizio di ultrapetizione, ai sensi dell'art. 360, n. 4, c.p.c..Deduce che la Corte d'appello ha errato nel condannare la ICR a restituire alla Generali (da lui chiamata in causa quale assicuratore della responsabilità civile) "le somme in esubero rispetto all'accertata responsabilità solidale" dell'assicurato. Ricorda come il Tribunale, errando, ritenne di condannare direttamente la società Generali (suo assicuratore della responsabilità civile) a versare l'indennizzo assicurativo direttamente nelle mani del terzo danneggiato, la ICR. Osserva che tale statuizione fu certamente errata, ma che nondimeno, una volta affermata in appello anche la sua corresponsabilità nella produzione del danno, la Corte d'appello avrebbe dovuto comunque condannare la Generali a tenerlo indenne dalle pretese attoree. La statuizione della Corte d'appello ha invece avuto l'effetto di affermare da un lato la responsabilità dell'assicurato, e dall'altro di escludere l'obbligo dell'assicuratore di tenerlo indenne, in assenza di  contestazioni sull'efficacia del contratto.

9.2. Il motivo è inammissibile per difetto di interesse, ex art. 100 c.p.c.. Va rilevato, in primo luogo, che l'appellante SD, in grado di appello, non formulò né ripropose, ex art. 346 c.p.c., alcuna domanda, condizionata o subordinata, di garanzia nei confronti del proprio assicuratore (cfr. p. 24 dell'atto di appello proposto da SD), e dunque la Corte d'appello non aveva alcun obbligo di pronunciare su una domanda mai proposta. Né, del resto, SD aveva alcun interesse a proporre una simile domanda. La società Generali, infatti, chiamata in causa dal convenuto sia nella comparsa di costituzione e risposta in primo grado, sia nella comparsa di costituzione e risposta con appello incidentale depositata in grado di appello, mai contestò di essere tenuta a manlevare il proprio assicurato.

Dichiarò, anzi, di "non avere mai contestato il proprio obbligo" (così la suddetta comparsa d'appello, p. 14, primo capoverso), limitandosi ad invocare i patti contrattuali: ovvero il contenimento dell'obbligo di garanzia nel massimale di euro 154.937, e con la franchigia del 10% per ogni sinistro. 9.3. Da quanto esposto consegue che: (a) omessa pronuncia sulla domanda di garanzia proposta da SD non vi fu, perché nessuna domanda di garanzia venne formulata od anche solo riproposta, ex art. 346 c.p.c., in grado di appello, da SD; (b) non v'è interesse di SD all'impugnazione del capo di sentenza che ha condannato la ICR a restituire alla Generali parte dell'indennizzo ricevuto, perché la Generali ha ammesso di essere tenuta a garantire e manlevare il proprio assicurato, sicché da una eventuale restituzione dell'indennizzo nessun pregiudizio potrebbe derivare al diritto dell'assicurato ad essere tenuto indenne dal proprio assicuratore, per effetto della suddetta confessione giudiziale.

10. Il terzo motivo del ricorso incidentale 0.1. Col terzo ed ultimo motivo del proprio ricorso incidentale, SD lamenta, ai sensi dell'articolo 360, n. 3, c.p.c., la violazione dell'articolo 91 c.p.c.. Sostiene di essere stato erroneamente condannato alla rifusione delle spese di lite in favore della società ICR, in solido con l'altro soccombente RC, dal momento che in grado di appello egli era risultato "parzialmente vincitore": ciò sul presupposto che,mentre in primo grado era stato ritenuto unico responsabile, in grado di appello è stato ritenuto coobbligato solidale insieme al curatore fallimentare. Conclude perciò sostenendo che la Corte d'appello avrebbe dovuto ripartire le spese di lite in misura diversa tra lui e l'altro convenuto.

10.2. Il motivo è infondato. Il ricorrente si duole del fatto che, data una parte vittoriosa e due parti soccombenti, questi ultimi si sarebbero dovuti condannare alla rifusione delle spese in misura diversa. Ma nella regolazione delle spese di lite andavano distinti da un lato il rapporto tra SD e la ICR, e dall'altro quello tra SD e RC (altro convenuto). Quanto al primo rapporto, la soccombenza va valutata rispetto all'esito complessivo della lite, e rispetto alla società ICR SD soccombente fu dichiarato in primo grado, e soccombente restò in grado d'appello. L'affermazione della sua ci responsabilità soltanto concorsuale in grado di appello, infatti, ha lasciato immutato il suo obbligo di risarcire l'intero danno alla ICR, giusta la previsione dell'art. 2055 c.c..

10.3. Quanto al rapporto tra i due convenuti, va ricordato che ai sensi dell'art. 97 c.p.c. se le parti soccombenti sono più, il giudice deve condannare ciascuna di esse alle spese e ai danni "in proporzione del rispettivo interesse nella causa", ma può anche pronunciare condanna solidale di tutte o di alcune tra esse, quando hanno interesse comune. Ed interesse comune vi è, per questa Corte, in tutti i casi di solidarietà passiva tra i convenuti (Sez. 3, Sentenza n. 16056 del 29/07/2015, Rv. 636621 - 01), come appunto nel caso di specie.

 

Aggiungasi che la scelta di condannare solidale di più convenuti soccombenti nei confronti dell'unica parte vittoriosa è rimessa al giudice del merito, e costituisce una facoltà discrezionale non sindacabile in questa sede (ex multis, Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 12025 del 16/05/2017, Rv. 644284 - 01; Sez. 2, Sentenza n. 17281 del 12/08/2011, Rv. 618984 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 24757 del 28/11/2007, Rv. 600471 - 01).

Infine, nel caso di specie non solo sussisteva un interesse comune dei due convenuti a resistere alla domanda attorea, ma per di più la quota di responsabilità addossata a ciascuno di essi è stata stimata paritaria dalla Corte d'appello, ed appare coerente con tale statuizione la condanna solidale alla rifusione delle spese in favore della ICR. L'odierno ricorrente incidentale, in verità, in appello è risultato vittorioso non già nei confronti della ICR (rispetto alla quale, per quanto detto, la propria obbligazione è rimasta immutata all'esito del giudizio di secondo grado), ma rispetto all'altro convenuto RC. E tuttavia nel rapporto interno tra SD e RC la Corte d'appello ha ritenuto di compensare le spese a causa della "soccombenza reciproca" (così la sentenza d'appello, p. 12, ultimo rigo precedente il dispositivo), e tale statuizione non è stata affatto impugnata da SD, il quale come già detto si è doluto unicamente di essere stato condannato alla rifusione delle spese nei confronti della ICR: doglianza, per quanto detto, non fondata.

11. Il ricorso incidentale della ICR. 11.1. Con l'unico motivo del proprio ricorso incidentale la società ICR lamenta, ai sensi dell'articolo 360, n. 3, c.p.c., la violazione dell'articolo 1917 c.c.Sostiene di essere stata erroneamente condannata alla restituzione, in favore della società Generali S.p.A., della quota dell'indennizzo ricevuto eccedente la quota di responsabilità attribuita all'assicurato. Deduce che l'assicuratore della responsabilità civile è tenuto a garantire il proprio assicurato per l'intero, anche quando abbia commesso un fatto illecito in concorso con altri. Invoca, a tal fine, le pronunce di questa Corte n. 8686 del 2012 e n. 20322 del 2012. 11.2.

Il motivo è fondato, sebbene per ragioni giuridiche diverse da quelle prospettate dalla ricorrente. Ciò tuttavia non è d'ostacolo all'accoglimento del ricorso, avendo questa Corte già più volte stabilito che, in virtù del principio iura novit curia, l'erronea individuazione, da parte del ricorrente per cassazione, della norma che si assume violata resta senza conseguenze, quando dalla descrizione del vizio che si ascrive alla sentenza impugnata possa inequivocabilmente risalirsi alla norma stessa, ferma restando ovviamente l'immutabilità dei fatti posti a fondamento della domanda (così, ex aliis, Sez. 3, Sentenza n. 4439 del 25/02/2014). Del resto, così come l'art. 384, comma secondo, c.p.c., consente alla Corte di lasciare ferma la sentenza impugnata quando la decisione sia conforme a diritto, ma di correggerne le motivazioni se giuridicamente erronee, allo stesso modo deve ritenersi consentito alla Corte di cassazione "ritenere fondata la questione sollevata dal ricorso, per una ragione giuridica diversa da quella specificamente indicata dalla parte e individuata d'ufficio", col rispetto di soli due limiti: (a) che restino immutati i fatti accertati nelle fasi di merito; (b) che restino immutate le domande come proposte nelle fasi di merito (così, testualmente, Sez. 3, Sentenza n. 19132 del 29/09/2005).

Ciò posto, deve osservarsi come nel caso di specie si sia verificata la seguente vicenda processuale: (a) il soggetto danneggiato ha convenuto in giudizio il responsabile- assicurato, e questi ha chiamato in causa il proprio assicuratore della responsabilità civile; (b) l'assicuratore della responsabilità civile non ha contestato il proprio obbligo indennitario nei confronti dell'assicurato; (c) il primo giudice ha affermato la responsabilità esclusiva dell'assicurato, e condannato l'assicuratore a pagare l'indennizzo direttamente nelle mani del terzo danneggiato; (d) il secondo giudice ha affermato la responsabilità concorrente dell'assicurato, e condannato il danneggiato a restituire all'assicuratore la metà dell'indennizzo ricevuto.

Dinanzi a questa vicenda, non vengono in rilievo né la norma (art.1917 c.c.), né il principio (affermato da Cass. 8686/12) invocati dalla ricorrente incidentale ICR. Non viene in rilievo l'art. 1917 c.c., perché se è vero che tale norma non consente al terzo danneggiato di chiedere il risarcimento direttamente all'assicuratore del responsabile, è altresì vero che la ICR non potrebbe dolersi della violazione di tale principio: ad applicarlo rettamente, infatti, tale principio comporterebbe l'obbligo della ICR di restituire tutto l'indennizzo ricevuto, e non solo la metà di esso, perché il Tribunale non avrebbe potuto condannare la Generali a pagare l'indennizzo ad un soggetto di cui non era debitrice. Nemmeno viene in rilievo il principio sancito da Cass. 8686/12, ovvero il principio dell'inopponibilità, da parte dell'assicuratore della r.c. al proprio assicurato, di un eventuale suo concorso di colpa. Quel principio, infatti, vale nei rapporti interni tra assicurato ed assicuratore, mentre nel caso di specie l'assicuratore è stato condannato a pagare l'indennizzo direttamente al terzo danneggiato, in un caso in cui nessuna norma speciale consentiva tale condanna diretta.

11.4. Il motivo unico del ricorso incidentale proposto dalla ICR deve tuttavia dirsi fondato per una diversa ragione in diritto. Come s'è visto, nel caso di specie l'assicurato chiese al proprio assicuratore della r.c. di essere tenuto indenne, e l'assicuratore non ha contestato (anzi, ha ammesso) l'esistenza della propria obbligazione. Non è dunque in contestazione, nel presente giudizio, l'obbligo della società Generali di garantire SD dalle pretese della ICR. Se dunque è vero che la Generali non poteva essere condannata a pagare l'indennizzo direttamente nelle mani del terzo danneggiato, è altresì vero che, se l'indennizzo fosse restituito in tutto od in parte, risorgerebbe illico ed immediate il diritto dell'assicurato di essere tenuto indenne dal proprio assicuratore, e con esso l'obbligo della r Generali (verso il proprio assicurato) di pagare nuovamente la stessa identica somma alla ICR, anche direttamente se l'assicurato lo chiedesse, ai sensi dell'art. 1917, comma secondo, c.c.. Or bene, per millenario principio non è consentito al creditore esigere il pagamento d'una somma che, per legge o per contratto, dovrà immediatamente restituire a quegli da cui l'ha ricevuta. Si tratta del principio dolo petis, quod mox restiturus es, di cui sono espressione - tra gli altri - l'art. 1191 c.c. (là dove impedisce al solvens incapace di chiedere la restituzione di quanto versato, se comunque il debito era esistente e valido). Tale principio si fonda sul generale dovere di correttezza (art. 1175 c.c.), oltre che sul principio di economia processuale, in virtù dei quali è contrario a ragione, ed incoerente con una efficiente amministrazione della giustizia, costringere qualcuno a dare quel che dovrà immediatamente dopo riavere. Ne consegue che la Corte d'appello ha violato il suddetto principio, là dove ha condannato la ICR a restituire alla Generali un indennizzo che quest'ultima, non avendo contestato la propria obbligazione, sarebbe stata immediatamente dopo costretta a restituire, sia pure per effetto del vincolo contrattuale, e non di un credito contro di essa vantato dalla ICR. 11.5. La ritenuta fondatezza del ricorso incidentale della ICR non impone, tuttavia, la cassazione con rinvio della sentenza impugnata. Infatti, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell'art. 384, comma secondo, c.p.c.. Va di conseguenza rilevata in punto di fatto l'ammissione, da parte della Generali, della sussistenza del proprio obbligo indennitario, e va oA di conseguenza rigettato l'appello incidentale proposto dalla medesima società, nella parte in cui ha domandato la condanna della ICR alla restituzione dell'indennizzo versatole in esecuzione della sentenza di primo grado.

12. Le spese. 12.1. La cassazione della sentenza d'appello con decisione nel merito impone a questa Corte di provvedere sia sulle spese del giudizio di merito, sia su quelle del giudizio di legittimità. Nel presente giudizio, tuttavia, la cassazione con decisione nel merito ha riguardato il solo rapporto tra la ICR e la Generali: e dunque resta ferma la regolazione delle spese compiuta dalla Corte d'appello nei rapporti tra le altre parti.

12.2. Le spese del giudizio di merito nel rapporto tra la ICR e la Generali vanno regolate in base al principio della soccombenza, ex art.91 c.p.c.. Di conseguenza la società Generali va condannata a rifondere alla ICR la quota ideale di spese da essa sostenuta per resistere all'appello incidentale proposto dalla Generali; nulla invece è dovuto relativamente al primo grado di giudizio, non avendo la ICR formulato domande verso la Generali, né potendo farlo. Tali spese vanno liquidate, ratione temporis in base ai criteri stabiliti dal d.m. 10.3.2014 n. 55, e possono liquidarsi nella somma di euro 4.758, oltre accessori.

12.3. Le spese del presente giudizio di legittimità vanno così regolate: (a) RC,SDamiani e la Generali, in solido, dovranno rifondere quelle sostenute dalla ICR, ai sensi dell'art. 385, comma 1, c.p.c.; nei rapporti tra  SD e la Generali non è luogo a provvedere. Tutte le spese sono liquidate nel dispositivo.

12.4. Il rigetto del ricorso principale di RC e di quello incidentale di SD costituisce il presupposto, del quale si dà atto con la presente sentenza, per il pagamento a carico delle suddette parti di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l'impugnazione, ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228).

Per questi motivi la Corte di cassazione: (-) rigetta il ricorso principale proposto da RC, rigetta il ricorso incidentale proposto da SD(-) accoglie il ricorso incidentale proposto dalla ICR, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta l'appello incidentale proposto dalla Generali s.p.a. nei confronti della ICR; (-) condanna la Assicurazioni Generali s.p.a., in solido, alla rifusione in favore di International Credit Recovery (5) s.r.I., come in epigrafe rappresentata, delle spese del giudizio di appello, che si liquidano nella somma di euro 4.758, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfettarie ex art. 2, comma 2, d.m. 10.3.2014 n. 55; (-) condanna RC, SDi e la Assicurazioni Generali s.p.a., in solido, alla rifusione in favore di International Credit Recovery (5) s.r.I., come in epigrafe rappresentata, delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano nella somma di euro 7.200, di cui 200 per spese vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfetta.